CHI E’ IL FRATELLO DELLO ZIO SAM?

Joe Biden, Vladimir Putin, Xi Jinping; tre persone potenti fino al punto di diventare sinonimi delle nazioni che guidano, fino al punto di aver fatto divenire i loro nomi e quelli dei loro Paesi intercambiabili nel giornalismo internazionale. Tuttavia, all’appello manca un altro attore, da sempre protagonista dello scacchiere geopolitico mondiale: l’Unione Europea.

Infatti, nel Vecchio Continente manca una figura di spicco, qualcuno di così influente che possa rappresentare non solo l’Unione ed i suoi valori, ma anche le nazioni che non ne fanno parte. Naturalmente, il pensiero si rivolge alle sue quattro maggiori economie: Germania, Francia, Regno Unito ed Italia. Ciò che questo articolo si pone, è di analizzare sinteticamente le situazioni politiche interne a questi Paesi ed infine il motivo del vuoto di “influenza” al livello intergovernativo.

Prima all’appello è la Repubblica Federale Tedesca, il Paese guidato fino all’8 dicembre 2021 da Angela Merkel, la persona che più si è avvicinata ad essere l’identità dell’Unione. Al giorno d’oggi, dopo quasi dieci mesi di mandato, molte persone che non si informano regolarmente di affari esteri non riuscirebbero a ricordare il nome di Olaf Scholz, l’attuale Cancelliere Federale, colui che è succeduto alla Merkel. Dunque, non può essere lui la figura centralizzante: una persona conosciuta per aver lavorato dietro le quinte di molti partiti e governi, una persona il cui soprannome è “Il politico più noioso d’Europa”, che, pur avendo le capacità di prendere decisioni spesso difficili e impopolari, è privo di quel carisma che tanto condiziona i leader di oggi. La politica di oggi ha necessariamente bisogno di curare anche l’aspetto, oltre che le competenze: se ha i riflettori puntati addosso, anche una segreteria diventa un palcoscenico.

Chiarito questo primo aspetto, ne si individua anche un altro, molto più sostanziale, sul perché Olaf Scholz non può essere, oltre la faccia dell’Unione, anche la mano che ne porta la fiaccola dei valori: la Germania del suo governo ha spesso preso decisioni non in linea con il principio di solidarietà che ha caratterizzato l’UE dalla sua nascita. Limitato dalla forte dipendenza energetica con la Russia, Scholz non ha da subito pareggiato lo sforzo di altri Paesi UE nel sostenere l’Ucraina politicamente e materialmente: nascondendosi dietro errori logistici e comunicativi dei propri ministeri (peraltro smentiti anche da emittenti governative ucraine), ha inviato poche armi, di qualità discutibile e relativamente attempate. Non solo, ma anche in vista del prossimo inverno, che sottoporrà tutto il Vecchio Continente, in particolar modo i Paesi del blocco tradizionale NATO, ad una prova di resistenza mai affrontata dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, Scholz sta prendendo in considerazione di sospendere alcune esportazioni elettriche verso la Francia e di istituire un proprio tetto al prezzo del gas. Tutto ciò sta comportando una perdita di status della Germania: da nazione trainante dell’Unione, a giocatore in lotta per la sopravvivenza.

Passando al Paese che più aveva possibilità di elevarsi a baluardo dell’Unione, custode dei suoi valori e guidato da una persona prontissima a diventarne il volto, la Francia di Emmanuel Macron sembra essersi affievolita con il tempo. Citando lo stesso Macron, “è finita l’era dell’abbondanza”. Partendo dai suoi stessi comizi elettorali nel 2017 in cui, primo nel Continente, ha fatto volare bandiere europee accanto a quelle francesi, passando alle telefonate e riunioni con Putin per scongiurare il rischio della guerra che è comunque scoppiata, fino ad arrivare ad una vittoria risicata alle elezioni presidenziali ed a una maggioranza relativa alle parlamentarie, che non gli permette di governare da solo: il suo percorso al vertice racconta la storia di un capo di Stato che ha man mano perso sempre più potere, che ha scommesso sull’unità europea e ha visto dei rendimenti decrescenti alla sua scommessa. Il sistema francese, semi-presidenziale, è spesso vittima del problema noto come co-abitazione: essendo frutto di due elezioni differenti, è possibilissimo che il presidente (capo di Stato, ma non del Governo) e la maggioranza parlamentare non siano dello stesso partito, pur essendo entrambi espressione della volontà popolare. Ciò comporta relativa difficoltà di legislazione, ed è il problema che, seppur in misura minore (La Republique En Marche, il suo partito, ha il maggior numero di seggi in parlamento ma non la maggioranza), Macron deve affrontare. Dunque, le energie che dedica ai problemi domestici devono essere necessariamente sottratte alla politica estera, nel momento in cui l’Unione maggiormente necessita di cure e disponibilità dei suoi componenti.

Avendo trattato dei leader impossibilitati ad ascendere al ruolo di figura cardine per colpa di affari interni, credo sia giunto il momento di discutere di quelli che non hanno fatto in tempo a rafforzarsi fino a raggiungere questa posizione, poiché hanno visto la fine dei propri mandati dall’inizio della guerra fino ad oggi.

Nonostante non sia più parte dell’Unione Europea, il Regno Unito è sempre stata una nazione principale negli affari del Vecchio Continente, sin da quando era formalmente conosciuta come “Britannia” dai Romani. Al giorno d’oggi, è da 12 anni consecutivi che al Partito Conservatore viene chiesto dal monarca di formare un governo. Il sistema inglese non è molto diverso da quello italiano: alle elezioni si scelgono i membri del Parlamento; il leader del partito che vince diventa “ufficiosamente” Primo Ministro (il processo non è codificato, ma è ormai una convenzione) e sceglie i membri del suo gabinetto (Consiglio dei ministri) tra i membri eletti del Parlamento. Il governo viene formato e governa la nazione in nome del monarca. Ciò detto, con le primarie tenutesi il 5 settembre 2022, Liz Truss è diventata la leader dei Conservatori dopo le dimissioni di Boris Johnson del 7 luglio, e ad oggi è l’attuale Primo Ministro. Tuttavia, né lei né lui sono mai stati capaci di attrarre abbastanza stima e fiducia da poter essere considerati la faccia del Vecchio Continente: lei per la sua storia e per il suo abissale tasso di gradimento, lui per i vari scandali che hanno accompagnato la sua Premiership. Qualcuno potrebbe arrivare a dire che il Regno Unito post-Brexit abbia perso lo status di “Grande Nazione” anche in Europa, ma è un’affermazione molto azzardata. I politologhi dovranno osservare ancora l’evoluzione di questo Paese e la sua salute dopo le grandi transizioni a cui è andato incontro; quello che rimane certo è che la faccia degli sforzi europei non potrà essere l’anglosassone signora bionda. Forse lo era negli anni ’80, ma sicuramente non oggi.

Sul tema della bionda chioma, ritengo opportuno passare in rassegna l’ultimo Paese dei quattro elencati sopra. Difatti, con tutta probabilità quello sarà il colore di capelli della persona a cui Sergio Mattarella affiderà l’incarico di formare un nuovo governo. Giorgia Meloni, ma più alcuni membri del suo partito ed episodi che li hanno visti coinvolti, sono stati al centro di un’asperrima campagna mediatica. Si tralasceranno queste introspezioni, che meriterebbero un articolo a sé, ad un secondo momento. Quello su cui bisogna concentrarsi è l’opposizione tra lo scorso governo, capitanato forse dalla persona più europeista tra tutta la lunga lista di Presidenti del Consiglio della storia repubblicana, e quello che arriverà a prendere le redini, il più sbilanciato a destra dello stesso lasso di tempo. La stampa internazionale ha reagito prontamente e polarizzandosi: coloro che temevano un ritorno dell’ultranazionalismo e del neofascismo, e coloro che si dicevano fieri e meditavano su come una simile figura potesse trionfare nel loro Paese. È purtroppo qui che si fermano i dati oggettivi: forse Mario Draghi era la persona diventata sinonimo dell’UE; forse la Meloni, con la sua grinta sull’identità nazionale, sarà quella che farà rendere conto alle istituzioni europee che è giunto il momento di un aggiornamento. Ciò che rimane da dire è che nemmeno nel Belpaese si può trovare il volto in cui l’Unione possa trovare il suo collante. 

Tra chi è troppo preoccupato per i propri affari interni e chi non è più al governo, sembra che nessuno tra i quattro “big” d’Europa riesca ad unire il continente sotto la sua guida. Questa situazione è poco chiara e lascia alcune domande aperte. 

Forse non saranno loro a fornire, seppur simbolicamente, queste figure? Non si può dare una risposta certa: ne è passato di tempo da quando Ernst Reuter, il primo sindaco di Berlino Ovest dopo l’erezione del muro ha unito l’Europa occidentale contro il comunismo e da quando Margaret Thatcher ha portato i primi dogmi del Reaganesimo in UK. Ciò che possiamo aspettarci per il futuro è una maggior distribuzione di potere (simbolico), in particolare dopo le spinte di Spagna, Polonia e Danimarca per delle istituzioni europee più inclusive e più disposte ad ascoltare degli Stati tradizionalmente meno considerati.

 Che non sia possibile identificare una figura simile in UE? Improbabile. Ogni schieramento geopolitico ha bisogno di un proprio leader, che sia esso un’autocrazia, una Repubblica Popolare o una democrazia. È certamente più facile identificare una persona simile entro i confini di una sola nazione; è allora necessario, se si ritiene che serva un “Mr. Europa”, centralizzare maggiormente altri aspetti amministrativi finora delegati ai singoli Stati: il primo esempio che viene alla mente, vista la situazione, è un esercito comune. Fin quando le nazioni europee rimarranno così frammentate, così necessariamente costrette a fare da sole i propri interessi, l’Unione resterà soltanto un filo di spago che tiene uniti dei pezzi del puzzle che non combaciano. 

Daniele Erminio Petecca di Riforma e Progresso

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