RIFORMARE LE UNIVERSITA' PER RILANCIARE IL FUTURO DELL'ITALIA
RIFINANZIARE L'EDUCAZIONE UNIVERSITARIA e UNIVERSITA' GRATIS
Introdurre la governance del sistema universitario e la valutazione dei risultati
METTERE GLI STUDENTI AL CENTRO
fAR COLLABORARE LE IMPRESE CON LE UNIVERSITA'
Nelle università si forma il sapere, la conoscenza e la libertà della nostra società e del nostro futuro
Lo diceva anche Dante: “fatti non foste (fummo noi umani) a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza“.
Nelle Università si formano le nuove leve che saranno chiamate a guidare professionalmente la comunità. Le università studiano, fanno ricerca, scoprono cose nuove, formano ricercatori, scienziati, lavoratori specializzati, imprenditori, insegnanti, e non solo.
In Italia abbiamo qualche esempio di eccellenza nel nostro sistema educativo, e qualche timido passo avanti è stato fatto qua e là, grazie a qualche buona anima che si è presa la briga, nel piccolo, in solitudine e modestia, a portar avanti e migliorare come poteva un sistema che al giorno d’oggi, purtroppo, se preso nel suo insieme, fa acqua da tutte le parti.
Noi cittadini siamo unanimi nell’essere d’accordo che il “sistema dell’università pubblica” deve essere profondamente riformato e migliorato, in modo da raggiungere i più alti standard internazionali.
Siamo stati noi Italiani ad inventare le università moderne (la prima a Bologna), siamo patria di artisti, poeti, scienziati e inventori, dovremmo quindi essere tra i primi posti delle classifiche internazionali come “migliori posti al mondo dove studiare” e non essere, come purtroppo siamo adesso, quasi in fondo alla classifica tra i Paesi ritenuti migliori al mondo.
Nel costruire questa nostra riforma dell’educazione universitaria, facciamo riferimento a vari gruppi di esperti del settore, specialisti, e gruppi di studio che da anni si battono per una riforma profonda dell’università e della ricerca, con un’ottica apolitica, mirata solo al creare qualità, efficienza e benessere per l’intera comunità.
Molti punti della riforma provengono anche dal saggio, Quaderno numero 13 del Marzo 2017 “Dopo la riforma: università italiana, università europea? Proposte per il miglioramento del sistema terziario” edito dall’associazione TREELLE che ha come obiettivo il miglioramento della qualità dell’Education (educazione, istruzione, formazione) in Italia.
(Fonte: http://www.treellle.org/files/lll/Quaderno%2013_TreeLLLe.pdf)à
Come in ogni nostro Programma, siamo comunque sempre aperti a miglioramenti, modifiche, critiche costruttive e sviluppi da parte di chi vorrà dare il proprio contributo alla nostra causa.
Come scrive Attilio Oliva Presidente Associazione TreeLLLe in tale saggio “… l’università è luogo di confronti razionali, di studi e approfondimenti su temi complessi: è d’obbligo quindi un invito al dubbio metodico e al rispetto di diverse ipotesi da verificare secondo le buone regole della ricerca scientifica. L’istruzione superiore deve consentire di setacciare e pesare l’evidenza, distinguere il vero dal falso, il reale dall’irreale, i fatti dalle fiction: la missione dell’istruzione è insegnare a “pensare criticamente”. Il clima dominante tra i suoi operatori deve quindi essere ispirato a comportamenti e atteggiamenti di tolleranza e prudenza. In questo senso è verosimile che, come diceva Erasmo, l’università possa essere anche una forza di pace. L’università e il suo livello qualitativo sono da sempre connessi alla capacità che ogni Paese ha di affermarsi ed essere apprezzato nel confronto con altre economie e culture (…). Per Jacques Delors (“L’unité d’un homme”, 1994), l’università deve sempre avere la possibilità di esprimersi in tutta indipendenza (e conseguente responsabilità) sui problemi etici e sociali del tempo come una sorta di potere intellettuale di cui la società ha bisogno per essere aiutata a riflettere, a capire e ad agire…”.
PROBLEMI STORICI DA SUPERARE
L’arretratezza del contesto socio-culturale in cui opera l’università nel nostro Paese
Va riconosciuto ai decisori pubblici del nostro Paese il merito, specie nella seconda metà del secolo scorso, di aver esercitato uno sforzo poderoso volto a recuperare il ritardo storico del nostro Paese: nel 1950 circa il 60% degli italiani era privo di titolo scolastico, o aveva al massimo il titolo di licenza elementare. Persistono peraltro preoccupanti elementi di debolezza, rappresentati non solo dal deficit di laureati sulla popolazione, ma, ed è anche più preoccupante, dal basso livello di “competenze funzionali” rilevato dalle indagini internazionali (IALS-SIALS 2000, ALL-INVALSI 2006, PIAAC 2013).
Da queste indagini si evince che un terzo della popolazione italiana ha debolissime competenze funzionali (ovvero la capacità di comprendere e utilizzare testi scritti e di utilizzare strumenti matematici nei contesti di vita e lavoro quotidiano), che un altro terzo ha competenze fragili e a rischio di obsolescenza, e che solo un terzo delle persone è in grado di leggere, scrivere, discutere con un adeguato livello di conoscenze e competenze. Inoltre, altre indagini evidenziano che il nostro Paese, e segnatamente il Mezzogiorno, manifesta un grave deficit di “capitale sociale” (inteso come fiducia interpersonale, disponibilità a cooperare, associazionismo, impegno civico, ecc.).
Come già TreeLLLe denunciava nel Quaderno 9 (2010) “Il lifelong learning e l’educazione degli adulti in Italia e in Europa”, il basso livello di capitale umano e di capitale sociale del nostro Paese si configura come una vera e propria emergenza nazionale, tanto più grave in quanto sottaciuta o ignorata. Evidenziavamo allora quali fossero i costi dell’ignoranza: si tratta certamente di:
a) costi individuali (esclusione, precarietà, insicurezza, sudditanza);
b) costi sociali (spese per la salute, criminalità, democrazia poco partecipata);
c) costi economici (bassa produttività, scarsa innovazione, basso livello di sviluppo).
L’università italiana opera in questo contesto socio-culturale. Ancora oggi, il 40% della popolazione di età compresa fra i 25 e i 64 anni possiede al massimo la licenza media, il 42% ha conseguito il titolo secondario superiore e solo il 18% ha un titolo di studio di livello universitario (mentre i laureati in Germania sono il 27%, in Francia il 33%, nel Regno Unito il 44%). Il deficit italiano di laureati è particolarmente acuto per la totale assenza di lauree professionalizzanti, 2-3 anni, che sono invece fortemente diffuse in tutti gli altri paesi.
Colmare questa lacuna potrebbe significare elevare la qualità media del capitale umano del nostro paese, costituire il naturale sbocco dei giovani che hanno scelto istituti tecnici o professionali e rispondere alla necessità del mondo del lavoro di elevare la qualità professionale dei suoi quadri e dei suoi manager.
Dinamica delle iscrizioni e del finanziamento al sistema universitario
Una recente indagine SWG, condotta su un campione di 1500 maggiorenni, ha messo in luce come il 43% degli intervistati pensa che la laurea non rappresenti più un buon investimento. Gli stessi intervistati chiedono all’università una maggiore apertura al mondo del lavoro e una nuova offerta di lauree triennali professionalizzanti con attività di laboratorio in università e nelle aziende.
L’atavico sottofinanziamento dell’università
Ci sono anche altri fattori di debolezza, il più importante dei quali è costituito dallo storico sottofinanziamento del sistema universitario: appena l’1% del PIL contro l’1,4% della UE-22 ed il 2,6% degli USA (dati 2015). Sono necessarie nuove risorse per recuperare terreno in Europa, per fare in modo che le nostre università siano competitive sulla scena internazionale, per reclutare giovani ricercatori e per avviare da subito una offerta di istruzione superiore professionalizzante (sia universitaria che non-universitaria) che al momento, caso unico in Europa, è quasi del tutto inesistente.
La linea seguita dal Governo dal 2008 in poi è stata invece di segno opposto fatta di tagli particolarmente severi, sia sul piano finanziario che per il reclutamento di nuovo personale. È stato purtroppo vero che negli anni precedenti, ed in particolare a partire dal 2000, un numero significativo di università ha utilizzato male gli ampi margini di autonomia gestionale, finanziaria e didattica di cui disponeva: con la conseguenza di una crescita fuori controllo nel numero dei corsi e dei docenti e di pesanti squilibri finanziari. Ma la cura è stata da cavallo: il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), che nel 2009 era di 7,5 miliardi, è sceso nel 2016 a 6,9 miliardi, e cioè dell’8% in termini nominali e di quasi il 20% in termini reali. Inoltre è stata prima bloccata, poi severamente regolamentata, la politica di assunzioni, con il risultato che i docenti di ruolo sono scesi del 20% (da 62mila a 50mila), diminuzione solo in parte compensata dal reclutamento di nuovi ricercatori a tempo determinato. Questi interventi hanno peraltro inciso sia sulle realtà che avevano effettivamente abusato degli spazi di autonomia di cui godevano, sia su quelle decisamente più virtuose.
Dal confronto tra il sistema universitario italiano e quello dei principali paesi sviluppati con cui necessariamente dobbiamo misurarci e competere, risultano evidenti differenze e ritardi. Anticipiamo qui alcuni dei risultati principali che l’analisi comparativa mette in luce:
• nonostante la crescita osservata negli ultimi anni, l’Italia rimane tra gli ultimi paesi in Europa per quota di popolazione in possesso di un titolo di istruzione terziaria, anche tra la popolazione più giovane (25-34 anni): 25%, contro 40% della media UE-22 e 42% della media OCSE;
• in Italia l’istruzione terziaria è pressoché interamente concentrata nei corsi a prevalente contenuto teorico, mentre è quasi del tutto assente il segmento dei corsi a carattere professionale (i corsi ISCED5 della classificazione ISCED20111);
• l’Italia ha quasi colmato il gap in termini di giovani che conseguono un diploma di scuola secondaria superiore, ma presenta tassi di accesso all’istruzione terziaria che restano più bassi della media europea e della media OCSE: 44%, contro il 63% della media UE-22 e il 68% della media OCSE; da notare che, mentre la distanza nel livello di accesso all’istruzione terziaria tra il nostro e i paesi più avanzati è contenuta tra i giovani appena usciti dalla scuola superiore, resta elevato nelle età più mature, dove i tassi di iscrizione sono in Italia a livelli molto modesti. In molti paesi la partecipazione agli studi terziari degli adulti, anche impegnati in attività lavorative, risulta una quota rilevante degli ingressi;
• l’Italia presenta una modesta quota di immatricolati stranieri che in alcuni paesi contribuiscono significativamente ad incrementare gli ingressi al sistema universitario in rapporto alla popolazione;
• i tassi di completamento degli studi universitari risultano ancora molto bassi, in quanto gli abbandoni hanno un’incidenza superiore alla media: 42% contro 31% della media UE-22 e 30% della media OCSE;
• la spesa complessiva per l’istruzione terziaria (inclusa la ricerca universitaria) rappresenta l’1% del PIL (il dato più basso tra i paesi OCSE) contro l’1,4% della media UE-22 e l’1,6% della media dei paesi OCSE;
• le risorse e gli interventi per il diritto allo studio non riescono a raggiungere l’obiettivo di soddisfare la domanda di chi ne avrebbe titolo; in particolare, l’insufficienza delle borse di studio e la mancanza di un sistema di prestiti d’onore scoraggia la partecipazione agli studi universitari e la mobilità degli studenti.
MOBILITA’ SOCIALE – STUDENTI DEL SUD SPESSO “OBBLIGATI” A STUDIARE AL NORD PER RICERCARE QUALITA’ E OPPORTUNITA’ LAVORATIVE
La mobilità territoriale è cresciuta anche tra gli studenti laureati in un corso triennale che si iscrivono a un corso magistrale: tra il 2007 e il 2014 la quota di studenti del Sud che si iscrive a un corso magistrale in un ateneo del Centro-Nord è passata dall’11% al 18%, quella degli studenti delle Isole dal 15% al 29%.
Come affermato dal Rapporto ANVUR 2016, è necessario interrogarsi sui fattori che guidano la scelta dell’ateneo da parte degli studenti. La letteratura recente sembra concorde nell’indicare i fattori alla base delle scelte: la qualità degli atenei sul territorio, le condizioni del mercato del lavoro e il livello della qualità della vita, le origini sociali degli studenti e le possibilità economiche delle famiglie.
Le condizioni del mercato del lavoro contribuiscono a spiegare la maggior propensione a muoversi verso gli atenei del Nord, dove maggiori sono le opportunità occupazionali dopo la laurea. Questo fattore ha accresciuto la sua rilevanza in un periodo prolungato di crisi come l’attuale in cui i giovani, anche se laureati, incontrano difficoltà molto forti a inserirsi nel mercato del lavoro. Se questo è vero, è possibile che ciò spieghi anche perché negli ultimi anni la scelta di quanti si muovono dal Mezzogiorno ricada con maggior frequenza rispetto al passato sugli atenei del Nord piuttosto che su quelli del Centro. Alcune analisi hanno anche mostrato come la scelta di muoversi coinvolge prevalentemente studenti provenienti dai licei e con voti di maturità più elevati, elementi che indirettamente riflettono l’origine sociale degli studenti e le disponibilità economiche delle famiglie.
La struttura dell’offerta formativa
Nell’a.a. 2015/16 operano sul territorio italiano 96 istituzioni universitarie, 66 sono università statali (comprese le 3 scuole superiori ad ordinamento speciale che si occupano principalmente della formazione post laurea e i 2 istituti di alta formazione dottorale), 30 sono università non statali legalmente riconosciute, di cui 11 università telematiche.
Le università statali accolgono il 90% circa degli iscritti; alle università non statali è iscritto poco più del 9% degli studenti, di cui il 3,5% costituiti dagli iscritti alle università telematiche. Sono 12 le università che superano i 40.000 studenti iscritti.
Nell’a.a. 2015/16 erano attivi 4.586 corsi di studio, di cui 2.255 di primo livello, 2.015 di secondo livello e 316 a ciclo unico. Il numero dei corsi di studio, velocemente cresciuto nella prima metà del decennio scorso, in seguito alla riforma degli ordinamenti didattici del 3+2 ha raggiunto un valore massimo di 5.879 corsi nel 2007/08. Dall’anno accademico successivo, in linea con gli indirizzi governativi, si assiste a una razionalizzazione dell’offerta.
L’offerta formativa è attualmente caratterizzata da pochi corsi di studio interamente in lingua inglese e da circa 300 corsi di studio che utilizzano parzialmente la lingua inglese. Sono 140 i corsi di studio che offrono percorsi organizzati in convenzione con atenei stranieri finalizzati al rilascio del doppio titolo o del titolo congiunto, mentre i corsi che offrono convenzioni con altri paesi finalizzate alla mobilità degli studenti sono oltre 1.400 circa il numero degli studenti iscritti, va precisato che il nostro paese considera lo “studente iscritto” un individuo che è in regola con le contribuzioni richieste, indipendentemente dal suo impegno in attività di studio. Nelle statistiche degli altri paesi, di norma, viene usato il Full Time Equivalent Student, un metodo che riconduce il contributo degli studenti impegnati a tempo parziale all’unità di misura dello studente a tempo pieno: questo elemento contribuisce, in parte, a rendere sottodimensionati i nostri indicatori di efficacia rispetto a quelli di altri paesi.
Gli aiuti finanziari e i servizi agli studenti – Pochi e le tasse universitarie sono tra le più alte d’Europa
In Italia, il livello medio delle tasse richieste agli studenti è pari a circa 1.500 dollari a parità di potere d’acquisto, ovvero convertiti secondo l’indicatore che tiene conto dei diversi livelli dei prezzi tra i paesi. Focalizzandosi sui dati italiani e dividendo il totale delle entrate da tasse per il numero degli studenti iscritti, si ottiene un dato medio di poco superiore ai 1.000 euro. Le differenze sono tuttavia notevoli e sono ascrivibili a moltissimi fattori: differenze tra atenei statali e non statali, differenze tra gli stessi atenei statali, in base alla zona geografica in cui essi hanno sede (con gli atenei del Nord mediamente più cari di quelli del Sud: 1.400 euro contro 700), in base all’ambito disciplinare del corso (si rilevano differenze, ad esempio, tra i corsi di tipo umanistico e quelli di tipo medico), in base al livello economico delle famiglie.
Il dato medio, se confrontato con quello dei paesi anglosassoni, potrebbe sembrare basso, ma è certamente più elevato rispetto a quello di quasi tutti gli altri paesi europei e soprattutto superiore a quello dei paesi che, come l’Italia, sono caratterizzati da uno scarso sostegno economico agli studenti, sia esso nella forma della borsa di studio o del prestito.
L’incremento di risorse minimo necessario
Al fine di quantificare le risorse necessarie per il funzionamento del sistema, un utile termine di riferimento è rappresentato dalla quota di risorse investite, pubbliche e private, rispetto al PIL. Con l’1% l’Italia è il paese con il valore più basso tra i paesi OCSE (OECD, Education at a glance 2016). Il gap è di 0,5 punti, 8 miliardi di euro, rispetto alla media OCSE e di 0,4 punti (6 miliardi) rispetto alla media UE, un ritardo difficilmente colmabile anche nel medio periodo.
Un programma ragionevole può essere rappresentato dall’innalzamento di un decimo di punto, dall’1 all’1,1% del PIL in un orizzonte di 5 anni. Un tale programma richiederebbe un incremento delle risorse pubbliche di 1,5 miliardi in 5 anni, pari all’incirca alla riduzione in termini reali dei trasferimenti statali al sistema universitario e al diritto allo studio avvenuta in Italia tra il 2008 e il 2015. Nel più lungo periodo si dovrebbe ambire ad accrescere la spesa di 0,2 punti, avvicinando l’Italia all’1,2% di PIL della Germania, valore inferiore alla media, ma nettamente superiore a quello attuale del paese. L’investimento richiesto sarebbe di almeno 3 miliardi complessivi.
Il superamento del criterio della spesa storica con un’attenzione esplicita agli atenei in difficoltà
A fronte dell’innalzamento delle risorse occorrerebbe poi muovere rapidamente alla transizione a regime del nuovo modello di finanziamento basato su costo standard e quota premiale, portando in 5 anni il costo standard al 70% del finanziamento pubblico e la quota premiale al 30%. Dato il ritardo di sviluppo delle regioni del Mezzogiorno, si dovrebbe prevedere esplicitamente un correttivo che compensi gli atenei delle regioni in ritardo per la minor capacità contributiva, senza alterare il sistema degli incentivi implicitamente definito da costo standard e quota premiale.
RIFINANZIAMENTO
Esaminando la quota annuale destinata al solo finanziamento ordinario delle università (FFO – Fondo di Finanziamento Ordinario) da parte del governo italiano, si comprende come, ad oggi, l’intero sistema riceva poco più di 7 miliardi di euro per il proprio sostentamento, incluse le somme per le borse di dottorato. Un ammontare di finanziamento che rappresenta il risultato delle riduzioni operate a partire dall’anno 2009, pari a circa 900 milioni di euro, oltre il 10% del fondo complessivo, circa il 20% in termini reali. (Dati MIUR 2019 – Tabella 1 Quadro di sintesi FFO 2019.pdf) – € 7.241.127.399 (7.2 MLD €)
UNIVERSITA’ GRATIS
Studiare è un diritto, un’opportunità, un dovere! Troppo spesso le famiglie hanno dovuto dissanguarsi per far studiare i propri figli, o ancora peggio, non si sono potute permettere di farli studiare come si deve.
Miglioreremo la qualità dei servizi, delle offerte formative, della gestione amministrativa e meritocratica dell’università. Faremo sì che si creino ambienti formativi di crescita, qualità, meritocrazia, opportunità.
Al tempo stesso, ogni cittadino deve però essere messo nella stessa condizione di partenza, con pari diritti, doveri ed opportunità. Starà poi a lui/lei far fruttare il proprio futuro attraverso lo studio. Questo evita anche di creare, come adesso, cittadini studenti di serie A e di serie B (tra chi può, e chi non può permettersi di studiare, o studiare di qualità. (Per quello ci sono già le università private a fare la differenza).
UK a parte, l’Italia attualmente, in Europa, ha le università più costose in assoluto (per gli studenti). Oltre al danno la beffa, cioè dopo decenni di un sistema “costoso” per famiglie e studenti, comunque le università italiane non sono riconosciute come centri di qualità, di buoni servizi di apprendimento, di gestione trasparente, di centri d’eccellenza (a parte rari casi), quindi non si capisce a cosa gli sia servito raccogliere così tanti soldi dalle tasche degli studenti. Serve cambiare il sistema gestorio interno universitario, e dare risorse pubbliche, in modo da non far pesare questo direttamente sulle famiglie.
LO STATO COPRIRA’ ESATTAMENTE L’AMMONTARE ALLE UNIVERSITA’, DOVUTO ALLA CANCELLAZIONE DELLE TASSE UNIVERSITARIE, CHE VERRANNO CANCELLATE PER TUTTI PER SEMPRE.
Serve INCENTIVARE LE ISCRIZIONI (sia di giovani che adulti)
2 miliardi di Euro
per CANCELLARE LE TASSE UNIVERSITARIE A TUTTI, PER SEMPRE!
CANCELLAZIONE DELLA TASSA REGIONALE denominata “DIRITTO ALLO STUDIO”
Per lo stesso principio, VIETEREMO e CANCELLEREMO anche le TASSE REGIONALI chiamate DIRITTO ALLO STUDIO. (Far pagare un diritto è una contraddizione già di per sè).
Si tratta di qualche centinaia di euro che ogni studente universitario deve attualmente, annualmente pagare a prescindere, oltre alle tasse universitarie. Si versano alla Regione che poi utilizzerà (si spera) per servizi alle proprie università e per creare anche Borse di studio.
Il paradosso: si chiede un contributo extra agli studenti, per sostenere ancora le università, e perfino per creare delle borse di studio per gli studenti stessi.
Le Borse di Studio devono arrivare da fondi pubblici generali e non venir richiesti ad altri studenti! Tali studenti paganti (di solito non sono ricchi altrimenti andrebbero quasi sicuramente in università private), si trovano a pagare (in un certo senso) 2 volte, sia per loro che per altri. Non è giusto né corretto.
OBIETTIVO:
RAGGIUNGERE IN 5 ANNI LA MEDIA UE di 5,5 miliardi di Euro
Durante i 5 anni di Governo vogliamo raggiungere la MEDIA UE per spesa in Educazione Universitaria. Ai dati attuali significa trovare ulteriori 5,5 miliardi di euro (circa).
E’ una cosa possibile, fattibile, ed un investimento che deve essere fatto per far crescere l’Italia e i futuri Italiani, per creare qualità di sistema, migliori opportunità educative e quindi lavorative della società italiana del futuro.
Questi soldi li troveremo in vari modi:
– Dalla crescita economica e di ricchezza che avremo grazie alle nostre politiche generali, economiche, del lavoro e dell’impresa
– Grazie alla modifica del modus operandi delle pubbliche amministrazioni riguardo ai centri di acquisto, per una migliore e più efficiente opera di acquisto di beni e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni.
NON BASTA DARE SOLDI, SERVE ANCHE SPENDERLI BENE
Riprendendo il saggio di TREELLE, gli studi denotano come “Le università, godendo di un’autonomia gestionale che è auspicabile venga ulteriormente accresciuta nel tempo, devono rivolgere grande attenzione alla più efficiente, efficace e trasparente utilizzazione delle risorse finanziarie, pena il rischio della perdita di credibilità. Devono tendere a massimizzare la ricaduta sociale dei finanziamenti provenienti dalla collettività e, sulla base del principio della responsabilità, deve essere loro costante impegno quello di dare conto all’opinione pubblica e agli stakeholders delle proprie scelte e dei propri risultati (accountability). Il rendimento qualitativo e quantitativo dell’investimento, pubblico e privato, nella ricerca e nell’istruzione universitaria e la trasparenza gestionale rappresentano il banco di prova per una riconquistata fiducia della società verso l’università e la condizione per l’incremento delle risorse”.
SE NON SI INVESTE SI PERDE 2 VOLTE:
In secondo luogo, se le risorse non torneranno a crescere o peggio si dovessero ridurre, non sarebbe possibile recuperare il forte calo dei docenti avvenuto negli ultimi anni dovuto all’insufficienza delle risorse. Ciò pregiudicherebbe la capacità didattica e di ricerca degli atenei, ma anche la possibilità di accedere ai fondi europei per la ricerca, oggi indebolita dal basso numero di ricercatori rispetto al peso economico dell’Italia. Sotto questo profilo, il contributo con cui l’Italia partecipa al bilancio europeo e, quindi, al fondo europeo per la ricerca è molto alto (attualmente circa il 12,5%), in quanto parametrato alla dimensione dell’economia dei paesi e non alla dimensione del comparto ricerca (es. numero di ricercatori attivi). Nel nuovo programma quadro Horizon 2020 sono stati stanziati circa 75 miliardi di euro.
QUINDI IN SOSTANZA, ALLO STATO ATTUALE, TAGLIANDO E NON INVESTENDO IN EDUCAZIONE, UNIVERSITA’ E RICERCA, PERDIAMO OGNI ANNO MILIARDI DI EURO EUROPEI CHE SPETTEREBBERO A NOI (e che noi versiamo all’EUROPA) solo perché non abbiamo abbastanza personale, ricercatori, professori, gruppi di ricerca, non facciamo abbastanza ricerca, ecc.
SERVE POTENZIARE UNA VIA DIVERSA DI FINANZIAMENTO (come accade in molti Paesi nel mondo), ovvero farsi finanziare dal settore privato (imprese, aziende).
Altre possibili fonti di finanziamento
Come osservato la quota dei finanziamenti diversa dai trasferimenti statali è andata crescendo nel tempo. Molte università si sono dotate di strumenti e strutture per la valorizzazione dell’attività di ricerca e di formazione.
Ciò non di meno, l’impegno degli atenei deve continuare anche in questa direzione, venendo incontro e sollecitando la domanda di formazione permanente e ricorrente (lifelong learning) e di formazione a distanza (distance learning), attraverso attività e servizi didattici a pagamento, anche in collaborazione con imprese, Enti locali, ordini professionali, etc. e valorizzando l’attività di ricerca che, già oggi, può portare a dei ritorni economici. Più in generale gli atenei devono migliorare la propria gestione adottando metodi e tecniche di controllo e sviluppando competenze manageriali al fine da assicurare la massima efficienza e produttività nell’impiego delle risorse, sia finanziarie sia umane, anche sfruttando a pieno lo strumento del bilancio unificato e l’adozione della contabilità economico patrimoniale introdotte dalla riforma Gelmini.
Questa evoluzione potrebbe essere accompagnata da misure di sostegno che facilitino l’investimento privato nel sistema universitario, sia nella forma in Italia poco diffusa della donazione, sia in termini di incentivi alle collaborazioni tra imprese private e atenei. Sarebbe tuttavia illusorio attendersi che queste misure possano da sole colmare il ritardo italiano sopra documentato senza prevedere un aumento del finanziamento pubblico e/o un aumento dell’apporto delle famiglie, anche favorito da un numero maggiore di iscrizioni.
SU COSA INVESTIRE?
Per accrescere la quota di laureati e il potenziale di ricerca del paese, ovvero, accrescere il lavoro, la ricchezza, le opportunità future.
CREARE CORSI CHE SERVONO NELLA PRATICA, AL MONDO DEL LAVORO
Le maggiori risorse dovrebbero accompagnare un piano ambizioso di crescita della quota di laureati, anche facendo perno su un ampliamento e diversificazione dell’offerta formativa. Il raggiungimento dell’obiettivo sarebbe favorito infatti dalla creazione di percorsi professionalizzanti o di scienze applicate, analoghi a quelli esistenti in altri paesi, che rendano maggiormente attrattivi gli studi terziari per una platea più ampia di studenti e permettano una riduzione degli oggi elevatissimi tassi di abbandono, che affliggono soprattutto gli studenti provenienti dagli istituti tecnici e professionali e dai contesti famigliari più modesti. Più in generale occorre un impegno per migliorare la qualità della didattica e ridurre i tempi di conseguimento dei titoli di studio, di per sé un fattore che accresce i costi per famiglie e studenti, scoraggia l’iscrizione e favorisce gli abbandoni. A fronte di una media europea di circa il 37%, l’Italia potrebbe realisticamente ambire a portare la quota di laureati nella popolazione tra i 25 e i 34 anni dal 24 al 30%.
AMPLIARE IL NUMERO DI DOCENTI E RICERCATORI
Anche a questo fine occorrerebbe da subito prevedere un ampliamento del numero dei docenti, in particolare con l’ingresso di giovani ricercatori, invertendo la tendenza degli ultimi anni, quando i tagli finanziari sono stati accompagnati da un drastico calo del numero di professori e ricercatori universitari, da un aumento dell’età media di chi accede ai ruoli universitari e da un generale invecchiamento del corpo docente. Questo, oltre a indebolire la capacità didattica degli atenei, ha ovviamente ridotto il potenziale di ricerca dell’Italia, già sottodimensionato rispetto al peso economico del paese. Come mostrato nei rapporti ANVUR 2013 e 2016, il ridotto numero di ricercatori è tra l’altro alla base della ridotta capacità dell’Italia di attrarre le risorse che l’Europa mette a disposizione dei paesi membri dell’Unione per la ricerca, con una perdita netta (di circa 3 miliardi di euro) rispetto alla quota di finanziamento italiana del budget europeo.
AMPLIARE LE BORSE DI STUDIO
Con la finalità minima di dotare di una borsa di studio tutti coloro che risultano idonei in base al reddito e che attualmente non ricevono la borsa per mancanza di risorse. Tale incremento dovrebbe essere accompagnato da una revisione della normativa, che riduca i differenziali territoriali determinati dalle scelte effettuate a livello regionale, che finiscono per discriminare gli studenti sulla base della loro regione di nascita e residenza. Con un programma pluriennale occorrerebbe inoltre potenziare l’edilizia per residenze universitarie favorendo per questa via anche le scelte di mobilità dei meno abbienti.
Impiego delle risorse:
QUALITA’ E PROFESSIONALITA’:
Nelle università a numero chiuso, gli esami devono essere più performanti.
Gli studenti devono essere valutati su due cose:
– Conoscenza generale di argomenti che effettivamente andranno a studiare all’università (gli atenei selezioneranno alcune materie, le più importanti, e degli argomenti specifici, generali, essenziali e basilari, su cui verterà l’esame. Creeranno un libriccino/dipende scaricabili/acquistabili, col quale gli studenti potranno prepararsi. L’esame sarà a scelta multipla e risposta aperta e sarà soltanto su tali specifici argomenti e basta. Dovranno essere argomenti che sono la base di quello che verrà studiare a all’università, dando quindi agli studenti un primo leggero assaggio di cosa dovranno studiare.
– Per alcuni tipi di università/facoltà, per scremare ulteriormente gli accessi, si potrebbe eventualmente creare anche una commissione di docenti e psicologi che valutino studente per studente, una breve sessione orale, in modo da valutare le capacità e le attitudini degli aspiranti studenti (come avviene in famose università estere come Oxford, Harward).
La governance del sistema universitario e la valutazione dei risultati
PIANIFICAZIONE E MERITOCRAZIA
Serve riformare il sistema amministrativo, organizzativo e decisorio delle università affinché divenga di qualità, trasparente, sostenibile e costruttivo.
Serve dare più autonomia ma allo stesso tempo controllo tra i vari organi interni degli atenei, e la possibilità di valutare insegnanti, corsi di studio e personale universitario.
Serve che ogni Preside si dia un piano, abbia un programma da eseguire e che ne renda conto. In primo luogo è opportuno che il Ministero torni a giocare prevalentemente il ruolo che gli compete di pivot strategico. Ciò può avvenire non tanto e non solo razionalizzando l’esistente (inclusa la redazione di un vero e proprio Testo Unico che di molto chiarirebbe l’attuale, confuso, panorama delle norme che regolano la vita degli Atenei), quanto, piuttosto, impiegando le leggi attuali in una chiave diversa rispetto al passato.
Punto cruciale è il potere d’indirizzo che si esprime attraverso gli atti di programmazione. La programmazione in capo al Ministero deve trasformarsi in uno strumento architettonico ciclico nel quale sono indicate linee di indirizzo pluriennali legate, non ai modesti 150 mln di euro propri del Piano triennale, quanto, più efficacemente, alla disponibilità di tutte le risorse del finanziamento ordinario. Questo consentirebbe di dettare linee di sviluppo e di premialità connesse con un impianto finalmente strategico con un orizzonte cronologico credibile, in linea sia con i piani della ricerca nazionali che, parzialmente, internazionali.
In un impianto di tal genere al Ministero spetterebbe indicare il decorso pluriennale delle quote in incremento sia del costo-standard, sia della premialità (fino al raggiungimento dell’assetto, rispettivamente, 70%/30% previsto dalla L. 240/2010) e fissare gli obiettivi strategici che il Paese intende chiedere alle autonomie universitarie. Così, ad esempio, lo sviluppo progressivo di dottorati a forte vocazione industriale; l’incremento del numero dei ricercatori; le percentuali accettabili di organico nazionale distribuite tra le diverse fasce del personale; lo sviluppo delle vocazioni territoriali degli Atenei; la crescita delle lauree professionalizzanti legate alla rilevazione dei fabbisogni del mercato del lavoro.
L’incremento dello “spazio autonomistico” vuol dire innanzitutto svincolare il turnover dalla redistribuzione nazionale: ciascuna Università utilizza come meglio crede i rispettivi portafogli assunzionali, fatto salvo poi il controllo ex post. Nessuna limitazione, se non i vincoli che discendono dal rispetto degli equilibri di bilancio, come previsto dal Dlgs 49/2012 prima delle distorsioni introdotte dalla L. 135/20125.
PROPOSTE:
MIGLIORAMENTO DELL’ANVUR
Da qualche anno esiste un organo, creato per valutare la ricerca e la didattica universitaria italiana.
Purtroppo è nata un po’ zoppa, va riformata e soprattutto finanziata affinché possa riuscire a fare il proprio lavoro.
Appare chiara la centralità che l’Agenzia ricopre nel quadro normativo attuale, volto ad assicurare che l’autonomia universitaria, necessaria nel nuovo contesto mondiale dell’istruzione superiore e della ricerca, possa declinarsi nel segno della responsabilità e della trasparenza. La centralità normativa che le è stata attribuita non è stata accompagnata nella fase di avvio da un altrettanto ampio sostegno sul piano delle risorse umane assegnate all’Agenzia.
Ciò non poteva non ripercuotersi sull’attività e soprattutto sulla capacità dell’Agenzia di comunicare adeguatamente con i propri stakeholders, mentre le poche risorse erano impegnate nella definizione dei nuovi processi di valutazione, nella gestione di complesse procedure amministrative (come quelle collegate all’Abilitazione scientifica nazionale) e nella strutturazione dell’Agenzia stessa, a partire dalla scrittura dei regolamenti, la costruzione di un sistema di gestione contabile, fino all’acquisizione, tramite concorso, del personale in organico.
Ciononostante, il Coinvolgimento massivo del personale docente e delle amministrazioni valutate, ha nel tempo creato le condizioni per un dialogo diretto e per una maggior diffusione della cultura della valutazione. Finito lo stato “emergenziale” con cui l’ANVUR ha vissuto il periodo di avviamento, sarà necessario, come ha già iniziato a fare, che l’Ente assicuri la disponibilità a rimettere in discussione le procedure seguite con un atteggiamento di ascolto e di dialogo, senza ovviamente abdicare al ruolo di valutatore terzo.
L’Ente dovrebbe godere di risorse finalmente più adeguate in cui i processi di valutazione saranno più consolidati e accettati dalla comunità scientifica, l’ANVUR dovrà comunque impegnarsi a fondo in uno sforzo di comunicazione e dialogo. Occorre spiegare e rispiegare continuamente gli obiettivi, i metodi, gli indicatori, i numeri e le loro conseguenze.
Occorre mostrare i vantaggi della valutazione in termini di trasparenza, di merito, di allocazione più efficiente delle risorse pubbliche, di maggiore capacità di rendicontare alla società le proprie attività e di credibilità rispetto alla pubblica opinione. Occorre assicurare a chi viene di fatto “colpito” dalla valutazione che il gioco è aperto, che vi sono spazi di miglioramento che possono essere praticati e che non vi sono intenti punitivi o esclusivi ma di innalzamento della qualità. Occorre, infine, evitare che chi si oppone per motivi vari, da quelli ideologici a quelli di bottega (che prevalgono di gran lunga), possa indurre allo scetticismo e al rigetto la maggioranza dell’accademia, che invece è per sua natura propensa a valutare e a farsi valutare.
Occorre infatti che il dibattito possa basarsi su informazioni fondate ed è auspicabile che almeno nel mondo accademico la discussione documentata, e non già il pregiudizio, siano alla base della formazione delle opinioni. In ogni caso non vi è dubbio che l’istituzione dell’Agenzia e le scelte ministeriali e legislative relative al governo degli atenei e all’assegnazione dei finanziamenti, hanno segnato un cambiamento netto rispetto al passato che deve trovare il giusto riconoscimento con l’investimento di risorse e una ritrovata fiducia nell’accademia italiana.
PROPOSTE:
LA GOVERNANCE DI ATENEO
La fiducia sulla capacità delle università di autogovernarsi non è diffusa in ugual misura nei differenti governi dei paesi europei. Lo scenario è differenziato e si va da coloro che, ad un estremo, non ritengono che le università siano in grado di autogovernarsi come nel passato, a coloro che, all’estremo opposto, propongono una liberalizzazione del sistema universitario sostenendo che le università sono in grado di autoregolarsi; in questo caso, ovviamente, il necessario contrappeso alla concessione di ampi spazi di autonomia sta nell’introduzione di rigorosi sistemi di valutazione che permettano allo Stato di allocare le risorse in modo da corrispondere alle performance delle università medesime e, ancora più rilevante, in modo che si formi una cultura di autogoverno responsabile.
In Italia, a partire dagli anni novanta, con le riforme Ruberti e Berlinguer, è stato ampliato il grado di autonomia delle università, limitate in tutto il dopoguerra da un pesante apparato di vincoli istituzionali e burocratici in cui l’allocazione delle risorse e le decisioni riguardanti diversi aspetti delle attività delle università erano regolate in modo centralizzato; così facendo si è introdotto, per la prima volta, un maggiore grado di decentramento decisionale e finanziario all’interno del sistema universitario.
Alcuni di questi tratti sono stati modificati dal processo di autonomia che si è sviluppato a partire dai tardi anni ’80: autonomia gestionale nel 1989, finanziaria nel 1993, didattica nel 1997. Un’autonomia però non accompagnata dagli altri due elementi dei modelli di governance europei (competizione e soprattutto valutazione), che ha perciò portato a quella che è stata definita una “autonomia senza responsabilità” all’origine degli episodi negativi tanto amplificati dai media e dello “spirito punitivo” delle successive riforme. L’ultima legge di riforma in tal merito è stata la Legge 240/2010 (Riforma Gelimini) che se da un lato qualche piccolo passo avanti migliorativo l’ha fatto, dall’altro non ha creato invece la soluzione a problemi che si proponeva di risolvere.
Serve quindi attuare delle riforme anche sulla GOVERNANCE UNIVERSITARIA
PROPOSTE:
Nella Legge 240 l’obiettivo di rendere autonomo il Rettore dalle pressioni interne è stato realizzato conferendogli un solo mandato della durata di 6 anni. Crediamo sia una misura che va nella giusta direzione, anche se ulteriori passi avanti in questa direzione sono possibili, sia relativamente al Rettore sia agli altri organismi della governance centrale degli atenei:
Passare da una “governance collegiale” (spesso corporativa) a una “corporate governance”, cioè alla separazione delle responsabilità tra ruoli accademici e ruoli economico-finanziari e manageriali (tipici del Consiglio di Amministrazione); passare quindi da una figura di un Rettore che media tra interessi potenzialmente conflittuali (tra quelli del corpo docente e quelli dello Stato e degli studenti) al Rettore “imprenditore della ricerca” e garante di una gestione finanziaria sostenibile.
Dare la possibilità alle università più virtuose di sperimentare propri modelli funzionali e organizzativi, attraverso quanto previsto dalla stessa Legge 240, all’art. 1, e cioè che (…) “Sulla base di accordi di programma con il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, le università che hanno conseguito la stabilità e la sostenibilità del bilancio, nonché risultati di elevato livello nel campo della didattica e della ricerca, possono sperimentare propri modelli funzionali e organizzativi, ivi comprese modalità di composizione e costituzione degli organi di governo e forme sostenibili di organizzazione della didattica e della ricerca su base policentrica, diverse da quelle indicate nell’articolo 2” (ovvero quelle generali previste dalla stessa Legge 240).
Modificare il sistema elettivo del Rettore: si raccomanda che il Consiglio di Amministrazione, sentito il Senato accademico, nomini un Search Committee (comitato di personalità di chiara fama in ambito scientifico e accademico) composto da 5 persone esterne all’Ateneo e da uno interno che ha il compito di ricercare e ricevere le candidature e scegliere una rosa di tre nominativi anche non appartenenti ai ruoli dell’Ateneo di cui ha verificato la disponibilità. Il Rettore sarà poi eletto, tra questa rosa di tre candidati, da un largo corpo elettorale secondo le indicazioni della legge 240/2010. La scelta del Rettore dovrebbe in ogni caso avvenire sulla base di un programma preciso per lo sviluppo dell’università e dovrebbe esistere un organismo in grado di valutare il buon perseguimento del programma che ha enunciato.
Il Consiglio di Amministrazione, su proposta del Rettore, nomina i Direttori di Dipartimento (scuole, centri di ricerca, etc.) avendo concordato con loro obiettivi ben definiti da conseguire, su cui poi saranno valutati. In ogni caso, anche a prescindere dalla nomina dall’alto, a differenza di quanto avviene oggi, i Direttori di Dipartimento dovranno essere sempre valutati su obiettivi da conseguire.
METTERE GLI STUDENTI AL CENTRO
La centralità degli studenti non è, e non è stata, la preoccupazione principale degli attori politici e di chi opera all’interno delle università, siano essi amministratori oppure docenti. Eppure gli studenti sono, o dovrebbero essere, i principali destinatari per i quali l’istituzione è nata e si è sviluppata. Sono significativi, in questo senso, il ritardo e la marginalità con cui viene affrontato il tema della didattica incentrata sullo studente (“Student-Centered Learning”) che, come testimoniano ad esempio le iniziative promosse dall’EUA (European University Association), rappresenta uno dei principali argomenti di discussione in molti paesi.
A parte una quota limitata (anche se crescente) di giovani italiani che scelgono di proseguire gli studi all’estero, il sistema di istruzione terziaria del nostro paese appare poco attraente a una parte non trascurabile della popolazione giovanile che ha completato la scuola secondaria. Una delle ragioni della scarsa attrattività dell’istruzione superiore italiana è probabilmente dovuta all’immagine inerziale, cioè assai poco dinamica, offerta dalle nostre università e ampiamente riflessa nei media. Questa immagine esprime di fatto una realtà dove i cambiamenti riformatori sono stati più subiti che attivamente promossi e perseguiti all’interno del sistema e dove non si sono innescati meccanismi di competizione virtuosa tra gli atenei. Se si prescinde dai flussi di mobilità degli studenti meridionali che scelgono di studiare negli atenei del Centro e del Nord, la tendenza prevalente nella scelta dell’ateneo dove iscriversi è la vicinanza al luogo di residenza, al fine di minimizzare gli spostamenti.
Ne consegue che la popolazione studentesca si distribuisce tra i vari atenei senza che si possa in qualche modo regolarne i flussi: si creano così, da un lato, alcuni atenei giganteschi (in Italia vi sono ben 9 atenei con una popolazione studentesca superiore alle 50.000 unità), che riescono a funzionare solo se una parte degli studenti non frequenta le attività didattiche e, dall’altro, diversi atenei di modeste dimensioni dove spesso è il corpo docente, oltre a quello studentesco, a essere presente solo sporadicamente. E’ assai ragionevole ritenere che nel campo dell’istruzione superiore i vantaggi delle “economie di scala” siano decisamente inferiori agli svantaggi delle “diseconomie di scala” e che quindi sia opportuno fissare un tetto superiore oltre il quale si imponga lo sdoppiamento dei maxi-atenei. Analogamente, vi sono casi in cui potrebbe essere raccomandabile l’accorpamento o un’organizzazione federativa forte, già possibile a normativa vigente, tra atenei di dimensioni eccessivamente ridotte.
La presenza di un tetto dovrebbe indurre gli atenei che si avvicinano a raggiungerlo a sviluppare politiche di reclutamento più selettive e quindi ad adottare strategie di crescita non solo quantitative.
Differenziare l’offerta in base alla tipologia degli studenti
Le domande che gli studenti (e le loro famiglie) rivolgono all’università sono molto eterogenee. Si possono costruire tipologie in base a diversi criteri. Un criterio rilevante riguarda la natura del rapporto con l’istituzione universitaria. E’ forse possibile proporre un diverso “rapporto contrattuale” per studenti con esigenze differenziate, al fine di eliminare (o almeno ridurre) il fenomeno degli studenti “fuori corso”, identificando alcune categorie di studenti.
La prima categoria è costituita dagli studenti a tempo pieno, ovvero studenti che dedicano il loro tempo interamente allo studio, frequentano le lezioni e non accumulano (o non dovrebbero accumulare) ritardi nel percorso di studi. La seconda tipologia è costituita dagli studenti-lavoratori, ovvero studenti che, per potersi mantenere agli studi, svolgono regolarmente o, più spesso, saltuariamente, un’attività lavorativa che può essere più o meno collegata al tipo di studi intrapreso e accumulano ritardi più o meno lunghi nel superamento delle prove d’esame previste per il percorso “regolare” degli studi.
La terza categoria è costituita dai lavoratori-studenti, ovvero persone occupate in modo (relativamente) stabile in un’amministrazione pubblica o in un’azienda privata che perseguono l’ottenimento di un titolo di studio per favorire la carriera o aprire nuove prospettive professionali. Questi studenti normalmente non possono frequentare le lezioni, si presentano solamente agli esami, hanno un rapporto “strumentale” con l’istituzione che è vista essenzialmente come dispensatrice di credenziali accademiche. L’incidenza di questo tipo varia a seconda del settore disciplinare.
Un diverso “rapporto contrattuale” imporrebbe allo studente di scegliere se iscriversi come studente a tempo pieno, a tempo definito, oppure come studente a distanza. Nel corso dei suoi studi può decidere di passare ad una modalità diversa da quella inizialmente intrapresa, oppure passarvi automaticamente se non è in grado di rispettarne i criteri. E’ indispensabile, in quest’ottica, eliminare ogni politica di tassazione universitaria penalizzante per gli studenti a tempo definito, ovvero non commisurata all’impegno dichiarato dallo studente nel proprio “rapporto contrattuale”.
PROPOSTE:
FAR VOTARE GLI STUDENTI FUORI SEDE
Così come introdurremo il voto degli italiani momentaneamente all’estero per motivi di lavoro, studio e turismo, faremo si che ogni studente fuori sede possa votare a qualunque tipo di elezione e votazione senza per forza tornare nel proprio comune di residenza. Creeremo il sistema dove potrà farne richiesta online o in municipio presso il comune universitario e andare a votare in un seggio nella città universitaria dove si trova, oppure potrà scegliere il voto per corrispondenza.
ISTRUIRE E NON FAR SOLO IMPARARE A MEMORIA
Serve implementare le tecniche di insegnamento prendendo spunto dagli usi anglosassoni:
– SEMINARS SETTIMANALI – Dove a turno, gruppi di studenti, si trovano 1 ora alla settimana per parlare e discutere seduti in cerchio con l’insegnante, per affrontare gli argomenti trattati in quella settimana. Gli studenti potranno fare domande, discutere, farsi spiegare dettagli e l’insegnante sarà il coordinatore relatore in modo da condurre “la chiacchierata” sull’argomento, implementandolo con esempi pratici magari.
– Tutti gli studenti, per ogni corso che frequentano, per poter accedere agli esami nelle sessioni d’esame, dovranno fare durante il periodo di corso, una tesina da consegnare al proprio docente di tale corso, riguardante un argomento a piacere (secondo le linee guida segnalate dall’insegnante stesso). In tal modo gli studenti iniziano a prendere confidenza e imparare a fare ricerca, scrivere tesine (anche se intanto, di poche pagine), così imparano ad usare i libri delle biblioteche, citare le fonti, ecc.
In tal modo possono sviluppare un argomento specifico attinente al corso, e ricevere poi un voto che farà media con il voto dell’esame vero e proprio.
Questa tesina (in inglese “assessmen” ovvero “valutazione”) deve essere consegnata al docente entro la fine del corso, per dare tempo al docente stesso di correggerla e valutarla. Non si potrà venir bocciati sulla tesina, riceverà un voto numerico (dal 18 al 30) che farà poi media con il voto dell’esame ufficiale di fine corso.
Per il triennio, o per i primi 3 anni delle magistrali, ci sarà il corso di Educazione Civica e sarà obbligatorio in tutte le facoltà ed università d’Italia (riprendendo quanto studiato in quella materia durante le scuole dell’obbligo).
PROFESSIONI E CARRIERE UNIVERSITARIE
Anche il settore lavorativo nelle università ha bisogno di una riforma:
MIGLIORARE L’AUTONOMIA DELLE UNIVERSITA’
Per l’autonomia operativa delle università:
Per l’autonomia strategica delle università:
PREPARARE AL LAVORO
Come esiste già in molti Paesi, come USA o Germania per esempio, creeremo una maggiore flessibilità e collaborazione tra UNIVERSITA’ ed AZIENDE/IMPRESE private:
CORSI SPECIALIZZANTI
Le imprese investiranno dei soldi (anche pochi a testa, come una sorta di colletta di categoria, per chi fosse interessato), in modo da creare dei corsi specifici di studio, di training, di stage, atti a preparare gli studenti per il vero mercato del lavoro.
Questo farà sì che gli studenti, oltre che a studiare la teoria (come accade ora), facciano anche degli studi pratici, utili a svolgere determinate mansioni, e lavori.
RICERCA E RISOLUZIONI DI PROBLEMI
Al tempo stesso, le imprese posso cercare di risolvere un determinato problema, o chiedere di creare una determinata soluzione, o far inventare un determinato macchinario, ai ricercatori, studenti e professori universitari. Le imprese investiranno soldi nei progetti e le università studieranno e troveranno le soluzioni.
LA PROPOSTA DI ATTIVAZIONE IN ITALIA DELLE SCUOLE UNIVERSITARIE PROFESSIONALI (SUP)
In Italia già esistono le scuole superiori tecnico-professionali. Gli Istituti Tecnici Superiori (ITS) sono scuole di forte specializzazione tecnologica, riferite alle aree considerate prioritarie per lo sviluppo economico e per la competitività del Paese, realizzate secondo il modello organizzativo della Fondazione di partecipazione in collaborazione con imprese, università/centri di ricerca scientifica e tecnologica, enti locali, sistema scolastico e formativo. Essi rappresentano una nuova opportunità nel panorama formativo italiano in quanto espressione di una nuova strategia che unisce le politiche d’istruzione, formazione e lavoro con le politiche industriali del Paese. Sono una risposta alla domanda delle imprese, attraverso un’offerta formativa, di nuove competenze tecniche per promuovere i processi di innovazione e trasferimento tecnologico, nell’ambito delle Smart Specialization. Le Aree Tecnologiche degli ITS previste sono: Efficienza energetica, Mobilità sostenibile, Nuove tecnologie della vita, Nuove tecnologie per il Made in Italy, Tecnologie innovative per i beni e le attività culturali, Turismo, Tecnologie della informazione e della comunicazione.
Quindi è giocoforza creare qualcosa di simile ma nel campo universitario, come accade già in molti Paesi esteri come per esempio in Germania. Serve creare un connubio tra università ed aziende in modo da creare LAVORO, SVILUPPO PROGETTI E PRODOTTI, NUOVE PROSPETTIVE ED OPPORTUNITA’, e poter assumere poi LAUREATI che sanno fare esattamente il lavoro pratico/utile alle aziende. Questo sarà possibile anche attraverso stage aziendali fatti durante l’università.
Saranno le aziende a dire alle università di cosa hanno bisogno e, nel farlo, daranno anche un piccolo contributo economico atto a coprire i costi e le spese dei vari progetti.
Tutte le università potranno in tal modo agire in questa direzione. Però, per di più, creeremo anche delle nuove università (o modificando e accorpando attuali vecchi atenei) in modo che possano essere specializzate nella professionalizzazione.
Noi di Riforma e Progresso sosteniamo l’idea formulata dall’Associazione TreeLLLe e dalla Fondazione Rocca nella ricerca “Innovare l’istruzione tecnica secondaria e terziaria” del 2015, condividendo la proposta del CRUI del settembre 2016, di introdurre nel nostro Paese il modello francese degli IUT, istituendo le Scuole Universitarie Professionali (SUP), che potrebbero così operare parallelamente agli ITS:
• le Scuole Universitarie Professionali (SUP) rilasciano le lauree professionali (LP) caratterizzate da percorsi triennali; sono diverse dalle classiche lauree triennali (LT) che consentono il passaggio alla magistrale;
• gli Istituti Tecnici Superiori (ITS) rilasciano i Diplomi di Tecnico Superiore caratterizzati da percorsi biennali.
Le SUP offrirebbero corsi triennali terminali, orientati ad un rapido ingresso nel mondo del lavoro. Il riferimento in Italia potrebbe essere quello delle lauree sanitarie che hanno la caratteristica di essere anche abilitanti alla professione. Lauree professionali abilitanti risolverebbero un altro problema aperto: quello delle libere professioni per le quali la recente normativa europea richiede la laurea triennale (si pensi ad esempio alle professioni di perito e di geometra). Un riferimento potrebbe essere anche l’esperienza maturata con i Diplomi Universitari istituiti a suo tempo dalla legge 341/90.
In conclusione, resta il fatto che i due modelli (ITS e SUP) possono coesistere, così come avviene in Francia, dal momento che si tratta di tipologie di corso diverse per durata (una biennale e una triennale) e per di più mirate a target di utenza specifiche.
PROPOSTE:
Almeno il 50% dell’insegnamento deve essere focalizzato su aspetti professionali. La formazione deve portare all’acquisizione di conoscenze e competenze rivolte all’esercizio di funzioni di carattere specialistico.
Il tempo scuola deve essere all’incirca ripartito in 1/3 di lezioni frontali, 1/3 di formazione in laboratorio, 1/3 di stage presso imprese o enti (ovvero 60 crediti di didattica frontale, 60 di didattica laboratoriale e 60 di stage). Il terzo anno viene speso prevalentemente sul campo (oppure un semestre al secondo anno e un semestre al terzo in logica di alternanza scuola-lavoro). Il terzo anno usufruisce di programmi che favoriscono l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani (FSE, garanzia giovani, alto apprendistato, ecc.) al fine di consentire agli studenti di ottenere una retribuzione minima o un rimborso spese.
Definire delle “passerelle” che consentono ai diplomati biennali ITS di iscriversi alle SUP per conseguire la laurea professionale con un riconoscimento di un numero minimo di crediti e ai laureati triennali SUP di accedere alle altre lauree universitarie con il riconoscimento di un numero minimo di crediti.
UNIVERSITA’ 2.0 – DIGITALIZZAZIONE E BIG DATA
L’università deve assumere il ruolo di prima sentinella delle trasformazioni e delle innovazioni legate alla rivoluzione tecnologica in corso, aggiornando le proprie competenze e quelle che si trasferiscono agli studenti. Per affrontare ad esempio la quarta rivoluzione industriale (“Industria 4.0”) che sta trasformando il mondo della produzione, dei servizi, della informazione.
L’università è chiamata ad adattare i percorsi formativi per fornire agli studenti le competenze che consentano loro di essere competitivi nel segmento del mercato del lavoro relativo ai Big Data, oggi in grande espansione (“Data is the new oil”). Ciò deve avvenire non solo, come sta già accadendo, nei settori dell’ingegneria informatica, della matematica, dell’economia, ma anche introducendo moduli formativi di data science in tutti i corsi di studio, anche triennali, che abbiano un qualche nesso con questi temi, per fornire agli studenti gli strumenti necessari a comprendere il cambio di paradigma che sta investendo tantissime discipline.
Affinché ciò avvenga è necessario far fronte alla scarsità di personale docente con un background adeguato su questi temi, con uno specifico programma di reclutamento, che consenta di popolare le comunità accademiche di figure dotate di competenze che si pongono tra l’informatica, la fisica, la statistica e la matematica, secondo un approccio interdisciplinare.
Utilizzare gli strumenti di learning analytics per analizzare i risultati di apprendimento, identificare gli studenti a rischio di insuccesso e individuare fattori in grado di predire il successo accademico degli studenti stessi, in modo da intervenire in maniera tempestiva con azioni di supporto mirate o, nel migliore dei casi, predisponendo percorsi di apprendimento personalizzati.
Le università italiane dovrebbero investire sui MOOC (Massive Open Online Courses), per le loro caratteristiche di elevata flessibilità, fruibilità, disponibilità del materiale di studio, abbattimento delle barriere fisiche, culturali ed economiche, forte enfasi sull’internazionalizzazione, oltre che per la loro capacità di abbattere i costi di gestione del tradizionale modello didattico.
Le università potrebbero trovare nei MOOC uno strumento idoneo alla formazione di adulti, occupati, professionisti e di tutti quelli che vogliono investire nella formazione permanente. I contenuti dei corsi MOOC e il personale docente potrebbero essere condivisi con il mondo delle imprese interessate alla selezione e alla formazione del proprio personale.
La formazione per gli adulti può realizzarsi anche attraverso forme di finanziamento misto tra Stato, imprese e individui interessati.
Tra detrattori e propugnatori di MOOC sembra realistico e raccomandabile sperimentare subito modelli “misti”, blended, che contemperino la disponibilità di materiale didattico digitale con la presenza fisica, al fine di cogliere sia i vantaggi della didattica a distanza sia di quella in presenza. Il mix tra la componente online e quella in presenza può variare in modo significativo in base agli obiettivi dei corsi e alla discipline nelle quali essi sono attivati, sperimentando altresì approcci di “flipped classroom”.
Il mondo universitario è chiamato a comprendere e ad anticipare le trasformazioni in corso, per formare professionisti in grado di competere e lavorare nel mondo che incontreranno al completamento dei loro studi. Da questo punto di vista è molto importante che gli atenei individuino opportune occasioni di aggiornamento dei docenti, così che l’applicazione e l’utilizzo degli strumenti didattici digitali diventino sistematici.
ABOLIZIONE DEL VALORE LEGALE DEL TITOLO DI STUDIO
Se ne parla da decenni, e la maggior parte dei partiti politici italiani, nonché molte associazioni di categoria come Confindustria, e molte associazioni accademiche, si dicono d’accordo nell’abolizione del valore legale del titolo di studio.
Tra l’altro nella pratica, nella vita reale, già adesso la laurea “come pezzo di carta” sta perdendo prestigio in quanto “non tutti i laureati sono considerati uguali”. Gli stessi studenti valutano bene dove andare a studiare prima di intraprendere gli studi universitari. Già adesso tutti gli studenti si informano e sanno quale università è migliore rispetto ad altre perché riconosciuta da tutti come luogo dove si studia meglio, dove per esempio ci sono più laboratori, più interazioni col mondo del lavoro, più preparazione, più qualità (in quanto ogni università spende i propri fondi meglio o peggio di altre). Quindi, è corretto che se un’università pubblica, avendo a disposizione gli stessi fondi pubblici di altre università che offrono lo stesso corso di studi, ma che usa molto meglio i fondi e prepara molto meglio gli studenti, già adesso quella università viene preferita dagli studenti, e i datori di lavoro vedono di buon occhio e preferiscono chi esce da quella università piuttosto che un’altra. E’ cosa nota per esempio che ogni anno vengano stilate classifiche con “quali sono le migliori università italiane per determinati studi”.
In sostanza, le persone, giustamente, preferiscono dare importanza alla qualità dello studio, alla preparazione che dà alle persone, alle loro competenze, piuttosto che al pezzo di carta in sè. Attualmente invece, con il valore legale tutte le lauree sono considerate uguali dello stesso peso (anche se le persone ormai non danno più tale peso), ma la legge reputa identiche le lauree prese sia in un’università ritenuta da tutti buona, efficiente e di qualità, sia la laurea presa invece nella più scarsa, corrotta e malridotta università d’Italia.
La sua abrogazione potrebbe invece significare la liberalizzazione della formazione universitaria, lasciando che il mercato faccia da regolatore del valore della laurea nella sostanza e non nella forma. In pratica la nuova parola d’ordine sarebbe concorrenza più sana tra gli atenei con quelli più virtuosi – perché hanno i docenti e le strutture migliori e spendono meglio i fondi a disposizione – che diventerebbero i più ambiti dagli studenti per laurearsi e dalle imprese per assumere. Ciò creerebbe offerte formative differenziate e di crescente qualità.
Ricordiamo poi che con la nostra riforma, daremo più fondi a tutte le università pubbliche, le renderemo gratis per tutti, più trasparenti, più autonome, più organizzate. Daremo più borse di studio, perciò daremo a tutte la possibilità di potersi migliorare e attrarre studenti. Questo non farà altro che accentuare la qualità dell’offerta formativa.