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Chi è stato Paolo Borsellino?

E’ bello morire per ciò in cui si crede. Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”

Iniziamo con queste parole per raccontare chi è stato Paolo Borsellino
Nascita e formazione
Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19 gennaio 1940 nel quartiere popolare la Kalsa, lo stesso dove ha vissuto Giovanni Falcone. Si conobbero all’età di tredici anni in una partita di calcio all’oratorio.
Frequenta il liceo classico “Giovanni Meli” e l’11 settembre 1958 si iscrive a Giurisprudenza a Palermo.
Il 27 giugno 1962, all’età di ventidue anni, si laurea con 110 e lode.
Gli inizi in magistratura
Nel 1963 Borsellino partecipò al concorso per entrare in magistratura diventando il magistrato più giovane d’Italia. Iniziò il tirocinio come uditore giudiziario e nel settembre 1965 venne assegnato al tribunale di Enna nella sezione civile. Nel 1967 fu nominato pretore a Mazzara del Vallo.
Il 23 dicembre 1968 si sposò con Agnese Piraino Leto, i quali ebbero tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta.
Nel 1969 divenne pretore a Monreale dove cominciò a lavorare con il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile.
Il trasferimento a Palermo
Nel 1975 Borsellino venne trasferito presso l’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. Con il capitano Basile nel 1980 continuò l’indagine di Boris Giuliano, ucciso nel 1979, sui rapporti tra i mafiosi di Altofonte e Corso dei Mille.
Il 4 maggio 1980 il capitano Basile venne ucciso e a Borsellino fu assegnata la scorta.
Il pool antimafia
Il 29 luglio 1983 fu ucciso Rocco Chinnici da un’atobomba e l’idea del pool fu messa in pratica dal suo successore, Antonino Caponnetto. Ne facevano parte: Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Giuseppe di Lello e Leonardo Guarnotta.

Lo scopo del pool era condividere fra più persone la conoscenza e le informazioni sul fenomeno mafioso per coordinarsi fra le varie indagini e rendere più efficace l’azione giudiziaria.
Questo portò, con il pentimento di Tommaso Buscetta, a spiccare i primi 366 mandati di cattura e poi altri 127 grazie alle dichiarazioni del pentito Salvatore Contorno.

Il maxiprocesso

Nell’estate del 1985 Falcone e Borsellino furono costretti a trasferirsi con le loro famiglie nella foresteria del carcere dell’Asinara dove scrissero l’ordinanza-sentenza di 8 mila pagine che rinviava a giudizio 476 indagati.
Così, il 10 febbraio 1986, si aprì ufficialmente il maxiprocesso. Successivamente fu proprio Borsellino a rendere noto il fatto che fu fatto pagare il soggiorno ai due magistrati.

Il trasferimento a Marsala

Il 19 dicembre 1986 Borsellino chiese ed ottenne la nomina come Procuratore della Repubblica di Marsala

Questo trasferimento, visto che non fu seguito il criterio di nomina dell’anzianità di servizio, portò Leonardo Sciascia ad innescare la famosa polemica sui “Professionisti dell’antimafia” dove polemizzava sul fatto che l’antimafia fosse usata come uno strumento per fare carriera in magistratura.

Dopo la sentenza di primo grado del maxiprocesso, Antonino Caponnetto lasciò la guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo convinto che il suo posto venisse preso da Giovanni Falcone. Ma non fu così. Il CSM gli preferì Antonino Meli, seguendo il criterio di anzianità, il quale non aveva esperienza alcuna in indagini di mafia. Così il pool, mano a mano, venne smantellato.
Borsellino reagì con due interviste rilasciate il 20 luglio 1988 dove dichiarò: si doveva nominare Falcone per garantire la continuità all’Ufficio”, “hanno disfatto il pool antimafia”, “hanno tolto a Falcone le grandi inchieste”, “la squadra mobile non esiste più”, “stiamo tornando indietro, come 10 o 20 anni fa” .

Per queste sue dichiarazioni rischiò un provvedimento disciplinare e vennero predisposti accertamenti da parte del ministero per capire cosa stesse succedendo nel Palazzo di Giustizia di Palermo.

Nel frattempo Falcone, bocciato pure nell’elezione al CSM, accettava di dirigere gli Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia dove ideò, tra le tante cose, la DNA e la Superprocura antimafia contro cui si espresse criticamente anche Borsellino.

Il ritorno a Palermo

Secondo le parole del collaboratore Vincenzo Calcara, nel settembre 1991 Cosa Nostra incaricò lo stesso Calcara per uccidere Borsellino il quale, però, venne arrestato il 5 novembre e decide di pentirsi per salvare Borsellino.

Nel marzo 1992 Borsellino ritorna a Palermo come Procuratore aggiunto insieme al sostituto Antonio Ingroia.

Il 21 maggio 1992 Paolo Borsellino rilascia un’intervista dove parla dei rapporti tra Cosa Nostra e l’imprenditoria milanese, accennando ad indagini in corso sui rapporti tra Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri.

Dopo la morte di Giovanni Falcone Borsellino fece di tutto per scoprire la verità sulla strage di Capaci.

In una presentazione del libro di Pino Arlacchi, nonostante il suo rifiuto, i ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli annunciarono che avrebbero chiesto al CSM di riaprire il concorso per permettergli di partecipare alla nomina come Procuratore Nazionale Antimafia.

Borsellino non replicò direttamente ma rispose qualche giorno dopo affermando che:la scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento”.

La sera del 25 giugno partecipò ad un incontro pubblico per la presentazione di un fascicolo dedicato al fenomeno mafioso nell’atrio della Biblioteca comunale. In questo incontro lasciò quello che poi venne definito “testamento morale” di Borsellino. In questo incontro non poté rivelare dei particolari sull’indagine sulla Strage di Capaci anche perché rivestiva il ruolo di testimone e doveva essere ascoltato a Caltanissetta, dove si svolgevano le indagini sulla strage.

La morte

Il 19 luglio 1992 il giudice con la famiglia si trovavano a Villagrazia di Carini e nel pomeriggio si recò, con la sua scorta, in via D’Amelio in visita alla madre.

Alle 16:58 una Fiat 126, parcheggiata sotto casa della sorella, esplose non appena Borsellino suonò al citofono.

In quell’istante morirono il giudice Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina e Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio). Sopravvisse solamente l’autista Antonio Vullo.

 

Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”

Paolo Borsellino

Antonino Schilirò – Riforma e Progresso

Chi è stato Giovanni Falcone?

“L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, l’importante è saper convivere con la propria
paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti è non è più coraggio
ma incoscienza.”
Iniziamo con queste parole a raccontare chi è stato Giovanni Falcone
Nascita e formazione
Nato a Palermo il 18 maggio 1939 e cresciuto alla Kalsa, stesso quartiere di Paolo Borsellino, fin da
bambino si trova a giocare con figli di capimafia che poi dovrà imputare nel maxiprocesso.
Frequenta il liceo Umberto I e, dopo aver conseguito la licenza liceale con il massimo dei voti, effettua
una breve esperienza all’Accademia navale. Ma Giovanni scopre presto che la vita militare non fa per lui e
si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo e capisce fin da subito che la sua strada sarà la
magistratura.
Questo periodo si avvicina molto allo sport e pratica nuoto fino al 1980, quando dovrà smettere per la vita
blindata che è costretto a fare.
Nel 1962 incontra Rita e si innamora. Nel 1964 decidono di sposarsi mentre Falcone frequenta il concorso
in magistratura.
I primi passi in magistratura
Nel 1965 ottenne il primo incarico come pretore a Lentini e nel 1967 viene trasferito a Trapani dove
coltiva la sua natura giuridica e politica.
È lì, durante il processo contro le cosche del trapanese, che avviene il suo primo incontro con i clan e con
un capomafia: Mariano Licari.
Dirà di lui Falcone nel 1985: “Mi imbattei in un boss di rango. Era Mariano Licari, un patriarca
trapanese. Lo vidi in dibattimento, in Corte d’Assise. Era sufficiente osservare come si muoveva per
intravedere subito il suo spessore di patriarca”.
È ancora a Trapani che il giovane magistrato si trova a rischiare per la prima volta la vita: mentre è in
carcere come giudice di sorveglianza, a Favignana, un terrorista appartenente ai nuclei armati proletari lo
prende in ostaggio puntandogli un coltello alla gola. In cambio del rilascio chiede e ottiene di poter fare
delle dichiarazioni alla radio.
L’arrivo a Palermo
Nel 1978 Giovanni Falcone chiede il trasferimento a Palermo e viene assegnato alla sezione
fallimentare. Nel 1979 si separa dalla moglie e approda alla giustizia penale.
Falcone arrivò a Palermo sotto pressione di Rocco Chinnici dopo l’uccisione del giudice Terranova.

Le prime indagini su cui lavorò furono quelle su Rosario Spatola, un imprenditore mafioso italo-
americano, e si accorse subito dei legami tra alta finanza e economia con la mafia e capisce di dover

seguire il giro che fanno i soldi per poter realmente capire chi aiuta e favoreggia la criminalità
organizzata.
Questa fu un’inchiesta che si muove tra la mafia palermitana, mafia americana e passando per il mondo
politico-finanziario di Michele Sindona.
Si tratta della più potente associazione mafiosa legata al traffico di droga dalla quale arrivano ingenti
somme di denaro e poi vengono ripuliti nell’economia legale attraverso il banchiere Sindona.
Aprendo questo “libro” Falcone capisce l’estrema pericolosità, dovuta pure dalla quantità di omicidi che
ne seguirono.
Così Falcone inventa un nuovo metodo investigativo che rivoluzionerà la lotta a Cosa Nostra, estendendo
le ricerche al campo patrimoniale ed entrando per la prima volta nelle banche.
Vista la pericolosità dell’inchiesta, indagando sulle cosche Spatola-Inzerillo, nel 1980 viene messo sotto
scorta.
Questa indagine vede per la prima volta molte condanne esemplari tra le fila delle cosche mafiose. Ma la
loro risposta non si fa attendere. Il 29 luglio 1983 un’autobomba in Via Pipitone Federico uccide Rocco
Chinnici e gli uomini della sua scorta.
Girando le immagini di Palermo come “Beirut” i palermitani “affidano” a Falcone il compito di
proteggerli così diventa il simbolo della lotta alla mafia.
Con l’arrivo a Palermo a cambiare non è solo la vita professionale di Falcone ma pure personale. E’ qui
che nel 1979 incontra Francesca Morvillo.
Se ne innamora e si sposano nel 1986 ed uno dei testimoni è Antonino Caponnetto, capo del pool antimafia.
La nascita del pool antimafia
Subito dopo l’attentato di Rocco Chinnici arriva a Palermo a sostituirlo Antonino Caponnetto, un giudice
di Firenze sconosciuto ai palermitani.
Crede fortemente nel lavoro di Giovanni Falcone e così nasce il pool antimafia, un gruppo di lavoro che
indaga e si coordina su tutte le indagini relative a Cosa Nostra.
Il pool antimafia è composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe di Lello e Leonardo
Guarnotta. Come stretto collaboratore trovano il vice questore Ninni Cassarà il quale sarà autore della
redazione del rapporto di polizia sulla mega-inchiesta.
Nel 1984 Falcone ottiene le prove che porteranno all’arresto di Vito Ciancimino con l’accusa di
associazione mafiosa e importazione di capitali all’estero.
Poco tempo dopo vengono arrestati pure gli intoccabili esattori di Palermo: i cugini Ignazio e Nino
Salvo.
Il maxiprocesso
Il 28 luglio 1985 venne ucciso il commissario Beppe Montana e il 6 agosto dello stesso anno tocca a
Ninni Cassarà.
Falcone riceve minacce dal carcere e Antonino Caponnetto manda lui e Paolo Borsellino al carcere
dell’Asinara per terminare di scrivere l’ordinanza di sentenza del rinvio a giudizio del maxiprocesso.
Tornati a Palermo ricevono pure il conto del “soggiorno”: 415 mila lire.
L’8 novembre 1985 il pool deposita l’ordinanza di rinvio a giudizio di 475 imputati e il 10 febbraio 1986
inizia il primo maxiprocesso a Cosa Nostra.
Il 16 dicembre 1987 il presidente della Corte d’Assise, Alfonso Giordano, legge la sentenza: ai 339
imputati vengono inflitti 2665 anni di carcere con 19 ergastoli. Da questo giorno la mafia esiste e non è
impunibile.
E’ passata la tesi dell’unicità di Cosa Nostra nata nell’epoca dell’inchiesta Spatola, confermata durante il
maxiprocesso da Tommaso Buscetta. Proprio lui, l’ex boss nato a poche centinaia di metri dalla piazza
della Magione in cui era cresciuto Giovanni Falcone, ha rivelato e fatto conoscere a Giovanni Falcone
cosa era realmente Cosa Nostra.
Nel maggio del 1986 si sposa con Francesca Morvillo.
Gli anni dei veleni e l’isolamento
Finito il maxiprocesso il giudice Antonino Caponnetto va in pensione, essendo sicuro che il suo posto
verrà preso da Giovanni Falcone.
Ma il Consiglio Superiore della Magistratura nomina Antonino Meli il quale smantella il pool
antimafia.
Frantumando i processi dividendoli in vari uffici si perde il filo conduttore che esistono tra le varie
vicende e inizia così un periodo molto difficile per Giovanni Falcone.
Il 1989 è l’anno dei veleni. Falcone viene accusato di far tornare in Italia il collaboratore Salvatore
Contorno con il compito di uccidere i capimafia nemici usciti vincitori nella guerra di mafia. Il tutto
viene confermate in delle lettere anonime, passate alla storia come le lettere del “Corvo” ed inviate a
varie rappresentanze istituzionali.
Il 20 giugno 1989 Falcone sfugge all’attentato tesogli all’Addaura, in una villa a mare dove passava delle
giornate estive. Furono ritrovati 58 candelotti di dinamite dentro un borsone in riva al mare. Proprio
adesso parla per la prima volta delle “menti raffinatissime” i quali vogliono dar credito alle lettere
diffamatorie del “Corvo”.
Dopo l’attentato all’Addaura e per diretto interessamento del Presidente della Repubblica Francesco
Cossiga, Giovanni Falcone viene nominato dal Consiglio Superiore della Magistratura procuratore
aggiunto del tribunale di Palermo.
Seppur molto ostacolato Falcone va avanti e nel gennaio 1990 coordina un’indagine che porterà all’arresto
di quattordici trafficanti colombiani e siciliani.
L’esperienza a Roma
Avendo teso il rapporto con il procuratore Pietro Giammanco, il quale ostacola sistematicamente il
lavoro di Giovanni Falcone, decide di accogliere l’invito del Ministro di Grazie e Giustizia Claudio
Martelli a ricoprire il ruolo di Direttore degli Affari Penali al Ministero dove prende servizio nel
novembre 1991.
Al Ministero Falcone fa in modo di semplificare e razionalizzare il rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, istituendo una forma di coordinamento tra le varie procure.
Decide così di istituire delle Procure distrettuali con esclusive competenze di contrasto alla mafia e
direttamente dipendenti dai capi degli uffici. Inoltre, per garantire la circolazione di notizie in tutto il
territorio nazionale, costituisce la Direzione Nazionale Antimafia, nota come Superprocura.
Ma quando viene indicato il nome di Falcone alla guida della Superprocura, molti colleghi lo accusano di
volersi impadronire di uno strumento di potere da lui stesso ritagliato.
In questo periodo vengono gettate le basi per la nascita di norme e di leggi che regolano la gestione dei
collaboratori di giustizia e viene ideato il carcere duro per evitare la comunicazione tra i boss in carcere e
i boss a piede libero, il cosiddetto 41bis.
Il 30 gennaio 1992 la Cassazione riconosce l’impianto accusatorio del maxiprocesso e conferma tutte le
condanne in primo grado.
Con questa sentenza Giovanni Falcone viene condannato a morte.
L’attentato
Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo, di ritorno da Roma, atterrano a
Palermo su un jet dei servizi segreti. Tre auto blindate lo aspettano, è la sua scorta.
Dopo aver preso l’autostrada arrivati allo svincolo di Capaci si sente un forte boato. Esplodono 500 chili
di esplosivo posti in un cunicolo sotto l’autostrada e perdono la vita il giudice Giovanni Falcone, la
moglie e magistrato Francesca Morvillo, gli uomini di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito
Schifani. Restano in vita i poliziotti Giuseppe Costanza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e Paolo
Capuzza.

Adesso tocca a noi portare avanti la lotta per un’Italia libera iniziata da Giovanni Falcone.
“Questo è il Paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa e la bomba per fortuna non esplode, la
colpa è tua che non l’hai fatta esplodere”
Giovanni Falcone 12 gennaio 1992

Antonino Schilirò – Riforma e Progresso

I PROBLEMI DELLA RETE ELETTRICA – Cosa può fare il nucleare?

I PROBLEMI DELLA RETE ELETTRICA – Cosa può fare il nucleare?

Immaginiamoci un’Italia alimentata da sole fonti rinnovabili. Ad oggi sappiamo che i problemi
che questa scelta comporterebbe sono numerosi: difficoltà a mantenere il carico di base,
necessità di grandissimi e numerosi centri di accumulo (tecnologia ad oggi immatura per la
scala di rete) e ovviamente il problema dell’aleatorietà. Ma immaginando che tutti questi
problemi sparissero per magia, la nostra rete nazionale sarebbe in grado di gestire un 100%
rinnovabili? Cosa dovrebbe cambiare? Scopriamolo!
Iniziamo con un concetto fondamentale: la stabilità di una rete elettrica è data da un fragile
equilibrio tra la produzione e il consumo e deve rispondere alla volatilità dei disturbi di
tensione e frequenza.
I problemi di una rete basata solo sulle rinnovabili:
Se da una parte le rinnovabili stanno subendo una rapida diffusione grazie alla notevole
riduzione dei costi dovuta agli attuali obiettivi di decarbonizzazione e ai numerosi incentivi
statali, dall’altra queste sono continuamente soggette a fluttuazioni e instabilità, dal
momento che fanno affidamento su vento e sole. I principali problemi che ciò comporta per
la rete elettrica sono: anomalie di frequenza e tensione, possibile sovraccarico delle linee di
trasmissione esistenti e un disadattamento della domanda e dell’offerta. Tutto questo
oscillare può portare al deterioramento della componentistica di alcune parti critiche degli
impianti di trasmissione e distribuzione.
L’accumulo con batterie su scala di rete
Le batterie rappresentano una valida opzione per incrementare la flessibilità della rete,
grazie alla possibilità di “spostare” nel tempo una parte dei consumi (time shifting), salvando
così energia quando costa meno (bassa domanda) per poi usarla in seguito, quando la
domanda cresce e il costo al kWh sale.
Gli accumuli, anche se di breve durata (solitamente tra le 6 e le 8 ore) e solare fotovoltaico
sono complementari, perché insieme possono ridurre notevolmente la capacità di carico
netta che deve essere garantita da fonti non rinnovabili. Le batterie possono quindi
contribuire a bilanciare il carico di rete, evitando fluttuazioni e rischi di blackout.
Ma è davvero così?
Analizziamo il caso della California: La California è uno dei leader mondiali per la “corsa alle
rinnovabili”. Fino ad ora ha installato circa 27 GW di energia rinnovabile intermittente,
accompagnata da sistemi di accumulo a batterie per circa 3 GW, quest’ultime con un costo
di svariati milioni di dollari. Il risultato? 4297 blackout annuali per un totale di 22 milioni di
persone senza corrente solo nel 2018. Che stabilità! Ma facciamo un altro esempio. La
powerwall di Tesla in Australia ha un costo stimato di 90 milioni di dollari, con una capacità di
accumulo di 300 MWh (100 MW x 3 ore). Seguendo questi trend, cosa significherebbe per
l’Italia? Immaginando 300 TWh di rinnovabili (ad oggi, ma nel 2050 saranno molti di più!),

con 100 TWh di accumulo il costo sarebbe circa di 30 mila miliardi di dollari. Conveniente
no?
Sempre la California ha promesso che questi enormi investimenti nelle rinnovabili (ad oggi
sono stati stanziati MILIARDI in incentivi) avrebbero portato lo stato a ridurre la dipendenza
dai combustibili fossili. Sta funzionando? NON PROPRIO!Negli ultimi 12 mesi infatti il gas è
stata la fonte principale di produzione elettrica, nonostante gli sforzi per accumulare e
produrre energia rinnovabile.
Le emissioni annuali sono stimate a 282g di carbonio per kWh prodotto. Il nucleare ha
rappresentato circa lo 0,33% delle emissioni totali.

Il Mismatch tra Domanda e Offerta
Dati alla mano, uno dei maggiori problemi di una rete solo rinnovabile sarebbe il mismatch
tra domanda, offerta e geolocalizzazione. In Italia ad esempio, le rinnovabili non hanno
sempre le stesse potenzialità su tutto il territorio. Eolico e solare sono fonti intermittenti e
dipendenti dall’intensità di sole e vento, che varia in base a dove ci si trova. Il problema? Nel
nostro paese il 56% dei consumi è a Nord*, ma il sole sta nel Sud Italia, mentre il vento è
bloccato dalle Alpi e dagli Appennini. C’è però una regione che sarebbe perfetta per
installare l’eolico in Italia: la Sardegna! Purtroppo però è anche la prima regione d’Italia per
numero di ricorsi al TAR mensili contro questa tecnologia (basta consultare un qualsiasi
giornale locale per sondare l’opinione della gente del luogo). Ma torniamo alla rete elettrica.
Data la notevole distanza tra Nord e Sud, per un 100% rinnovabile bisognerebbe riadattare
intere linee di trasmissione, per gestire i picchi e le notevoli perdite causate dalle lunghe
distanze di trasmissione. Sarebbe più economicamente sostenibile riadattare tutte le linee o
aggiungere qualche GW di nucleare al nostro mix energetico?
“La strategia italiana di lungo termine per la riduzione dei gas effetto serra”:
analisi degli scenari.
Il piano di decarbonizzazione italiano al 2050, inviato alla commissione europea a febbraio
2021, si basa principalmente sull’ipotesi della riduzione dei consumi. Cito dal testo: “i
consumi finali devono scendere sensibilmente, di circa il 40% rispetto a quelli attuali”.
Siccome questo scenario NON è ad oggi credibile, almeno guardando quelli che sono gli
attuali trend, analizziamo gli scenari più credibili. La domanda di energia al 2050 si aggirerà
intorno ai 650 TWh. Come farebbe l’Italia a raggiungere tale obiettivo con SOLE energie
rinnovabili? É credibile? É fattibile? Ma soprattutto, è sostenibile economicamente? Quanto
dovremmo installare? Scopriamolo.
100% RINNOVABILE BY 2050
-Solare fotovoltaico: 515 GW installati (oggi siamo a 24 GW). Questo significherebbe
ricoprire di pannelli fotovoltaici un’area poco più grande della valle d’Aosta.
-Eolico: stabile a 22 GW in quanto il solare è ad oggi più conveniente (a parità di energia
prodotta).

-Biogas: 35GW, con quasi 6000 biodigestori operativi in tutto il territorio.
-Batterie: 104 GW per un totale di 800 GWh di produzione (batterie con 8 ore di carica). Solo
per l’Italia sarebbe necessario triplicare la produzione MONDIALE di batterie al litio.
-Energia “buttata”: (ma sempre pagata): 210 TWh.
Sfruttare il surplus per produrre Idrogeno verde non sarebbe economicamente sostenibile,
nonostante se ne potrebbero produrre fino a 4,5 milioni di tonnellate. Questo perché
servirebbero oltre 200 GW di impianti di elettrolisi, per una produzione annuale di 1300 ore
(pochissimo!), il che non rende valido l’immenso investimento.
RINNOVABILI E NUCLEARE?
Diamo un’occhiata allo scenario che include il nucleare. Cosa cambia?
-Solare fotovoltaico: 175 GW installati (scende di 3 volte).
-Eolico: invariato a 22 GW. -Biogas: scende a 20GW.
-Nucleare: 37 GW (meno della Francia!).
-Batterie: 36 GW (si riduce a 1/3).
-Energia “buttata”: 37 TWh (scende di un fattore 6). Costo dell’energia: dal 25% al 35% più
basso, nonostante le nuove interconnessioni.*
Le altre fonti di energia (idro, geotermico, RSU ecc.) non sono state citate in quanto non
sufficientemente rilevanti per questa analisi. Ovviamente saranno anch’esse parte del
percorso di decarbonizzazione.
Insomma, è piuttosto evidente come l’inclusione dell’energia nucleare porti un grande
beneficio, sia in termini di emissioni (perché sì, il solare inquina più del nucleare a parità di
energia prodotta), sia in termini economici. Auspichiamo ad un’installazione che superi i 40
GW, in modo da coprire anche se solo in parte il teleriscaldamento, che grazie al calore di
scarto potrebbe riscaldare ad impatto (quasi) 0 migliaia di case. Ad oggi il dialogo per
l’inclusione dell’energia nucleare in Italia si sta piano piano sviluppando.
Certe volte invece può sembrare che il dibattito scientifico sull’energia nucleare possa
essere ancora aperto, causa giornali o talk show. É sempre importante ricordare che il
dibattito scientifico su questa fonte di energia è chiuso da decenni. Il nucleare è tra le più
sicure fonti di energia, con le minori emissioni, con costi operativi infimi rispetto perfino alle
rinnovabili, poco mineral intensive, necessità di poco spazio e produce pochi, gestibili e ben
stoccati rifiuti.

Il team GiovaniBlu

 

Fonti:

Statistiche terna
Intensità radiazione solare
Glossario
Analisi scenari 2050
Economicamente più sostenibile
Più “green”
California e accumulo
Cost and performance california

CHI E’ IL FRATELLO DELLO ZIO SAM?

CHI E’ IL FRATELLO DELLO ZIO SAM?

Joe Biden, Vladimir Putin, Xi Jinping; tre persone potenti fino al punto di diventare sinonimi delle nazioni che guidano, fino al punto di aver fatto divenire i loro nomi e quelli dei loro Paesi intercambiabili nel giornalismo internazionale. Tuttavia, all’appello manca un altro attore, da sempre protagonista dello scacchiere geopolitico mondiale: l’Unione Europea.

Infatti, nel Vecchio Continente manca una figura di spicco, qualcuno di così influente che possa rappresentare non solo l’Unione ed i suoi valori, ma anche le nazioni che non ne fanno parte. Naturalmente, il pensiero si rivolge alle sue quattro maggiori economie: Germania, Francia, Regno Unito ed Italia. Ciò che questo articolo si pone, è di analizzare sinteticamente le situazioni politiche interne a questi Paesi ed infine il motivo del vuoto di “influenza” al livello intergovernativo.

Prima all’appello è la Repubblica Federale Tedesca, il Paese guidato fino all’8 dicembre 2021 da Angela Merkel, la persona che più si è avvicinata ad essere l’identità dell’Unione. Al giorno d’oggi, dopo quasi dieci mesi di mandato, molte persone che non si informano regolarmente di affari esteri non riuscirebbero a ricordare il nome di Olaf Scholz, l’attuale Cancelliere Federale, colui che è succeduto alla Merkel. Dunque, non può essere lui la figura centralizzante: una persona conosciuta per aver lavorato dietro le quinte di molti partiti e governi, una persona il cui soprannome è “Il politico più noioso d’Europa”, che, pur avendo le capacità di prendere decisioni spesso difficili e impopolari, è privo di quel carisma che tanto condiziona i leader di oggi. La politica di oggi ha necessariamente bisogno di curare anche l’aspetto, oltre che le competenze: se ha i riflettori puntati addosso, anche una segreteria diventa un palcoscenico.

Chiarito questo primo aspetto, ne si individua anche un altro, molto più sostanziale, sul perché Olaf Scholz non può essere, oltre la faccia dell’Unione, anche la mano che ne porta la fiaccola dei valori: la Germania del suo governo ha spesso preso decisioni non in linea con il principio di solidarietà che ha caratterizzato l’UE dalla sua nascita. Limitato dalla forte dipendenza energetica con la Russia, Scholz non ha da subito pareggiato lo sforzo di altri Paesi UE nel sostenere l’Ucraina politicamente e materialmente: nascondendosi dietro errori logistici e comunicativi dei propri ministeri (peraltro smentiti anche da emittenti governative ucraine), ha inviato poche armi, di qualità discutibile e relativamente attempate. Non solo, ma anche in vista del prossimo inverno, che sottoporrà tutto il Vecchio Continente, in particolar modo i Paesi del blocco tradizionale NATO, ad una prova di resistenza mai affrontata dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, Scholz sta prendendo in considerazione di sospendere alcune esportazioni elettriche verso la Francia e di istituire un proprio tetto al prezzo del gas. Tutto ciò sta comportando una perdita di status della Germania: da nazione trainante dell’Unione, a giocatore in lotta per la sopravvivenza.

Passando al Paese che più aveva possibilità di elevarsi a baluardo dell’Unione, custode dei suoi valori e guidato da una persona prontissima a diventarne il volto, la Francia di Emmanuel Macron sembra essersi affievolita con il tempo. Citando lo stesso Macron, “è finita l’era dell’abbondanza”. Partendo dai suoi stessi comizi elettorali nel 2017 in cui, primo nel Continente, ha fatto volare bandiere europee accanto a quelle francesi, passando alle telefonate e riunioni con Putin per scongiurare il rischio della guerra che è comunque scoppiata, fino ad arrivare ad una vittoria risicata alle elezioni presidenziali ed a una maggioranza relativa alle parlamentarie, che non gli permette di governare da solo: il suo percorso al vertice racconta la storia di un capo di Stato che ha man mano perso sempre più potere, che ha scommesso sull’unità europea e ha visto dei rendimenti decrescenti alla sua scommessa. Il sistema francese, semi-presidenziale, è spesso vittima del problema noto come co-abitazione: essendo frutto di due elezioni differenti, è possibilissimo che il presidente (capo di Stato, ma non del Governo) e la maggioranza parlamentare non siano dello stesso partito, pur essendo entrambi espressione della volontà popolare. Ciò comporta relativa difficoltà di legislazione, ed è il problema che, seppur in misura minore (La Republique En Marche, il suo partito, ha il maggior numero di seggi in parlamento ma non la maggioranza), Macron deve affrontare. Dunque, le energie che dedica ai problemi domestici devono essere necessariamente sottratte alla politica estera, nel momento in cui l’Unione maggiormente necessita di cure e disponibilità dei suoi componenti.

Avendo trattato dei leader impossibilitati ad ascendere al ruolo di figura cardine per colpa di affari interni, credo sia giunto il momento di discutere di quelli che non hanno fatto in tempo a rafforzarsi fino a raggiungere questa posizione, poiché hanno visto la fine dei propri mandati dall’inizio della guerra fino ad oggi.

Nonostante non sia più parte dell’Unione Europea, il Regno Unito è sempre stata una nazione principale negli affari del Vecchio Continente, sin da quando era formalmente conosciuta come “Britannia” dai Romani. Al giorno d’oggi, è da 12 anni consecutivi che al Partito Conservatore viene chiesto dal monarca di formare un governo. Il sistema inglese non è molto diverso da quello italiano: alle elezioni si scelgono i membri del Parlamento; il leader del partito che vince diventa “ufficiosamente” Primo Ministro (il processo non è codificato, ma è ormai una convenzione) e sceglie i membri del suo gabinetto (Consiglio dei ministri) tra i membri eletti del Parlamento. Il governo viene formato e governa la nazione in nome del monarca. Ciò detto, con le primarie tenutesi il 5 settembre 2022, Liz Truss è diventata la leader dei Conservatori dopo le dimissioni di Boris Johnson del 7 luglio, e ad oggi è l’attuale Primo Ministro. Tuttavia, né lei né lui sono mai stati capaci di attrarre abbastanza stima e fiducia da poter essere considerati la faccia del Vecchio Continente: lei per la sua storia e per il suo abissale tasso di gradimento, lui per i vari scandali che hanno accompagnato la sua Premiership. Qualcuno potrebbe arrivare a dire che il Regno Unito post-Brexit abbia perso lo status di “Grande Nazione” anche in Europa, ma è un’affermazione molto azzardata. I politologhi dovranno osservare ancora l’evoluzione di questo Paese e la sua salute dopo le grandi transizioni a cui è andato incontro; quello che rimane certo è che la faccia degli sforzi europei non potrà essere l’anglosassone signora bionda. Forse lo era negli anni ’80, ma sicuramente non oggi.

Sul tema della bionda chioma, ritengo opportuno passare in rassegna l’ultimo Paese dei quattro elencati sopra. Difatti, con tutta probabilità quello sarà il colore di capelli della persona a cui Sergio Mattarella affiderà l’incarico di formare un nuovo governo. Giorgia Meloni, ma più alcuni membri del suo partito ed episodi che li hanno visti coinvolti, sono stati al centro di un’asperrima campagna mediatica. Si tralasceranno queste introspezioni, che meriterebbero un articolo a sé, ad un secondo momento. Quello su cui bisogna concentrarsi è l’opposizione tra lo scorso governo, capitanato forse dalla persona più europeista tra tutta la lunga lista di Presidenti del Consiglio della storia repubblicana, e quello che arriverà a prendere le redini, il più sbilanciato a destra dello stesso lasso di tempo. La stampa internazionale ha reagito prontamente e polarizzandosi: coloro che temevano un ritorno dell’ultranazionalismo e del neofascismo, e coloro che si dicevano fieri e meditavano su come una simile figura potesse trionfare nel loro Paese. È purtroppo qui che si fermano i dati oggettivi: forse Mario Draghi era la persona diventata sinonimo dell’UE; forse la Meloni, con la sua grinta sull’identità nazionale, sarà quella che farà rendere conto alle istituzioni europee che è giunto il momento di un aggiornamento. Ciò che rimane da dire è che nemmeno nel Belpaese si può trovare il volto in cui l’Unione possa trovare il suo collante. 

Tra chi è troppo preoccupato per i propri affari interni e chi non è più al governo, sembra che nessuno tra i quattro “big” d’Europa riesca ad unire il continente sotto la sua guida. Questa situazione è poco chiara e lascia alcune domande aperte. 

Forse non saranno loro a fornire, seppur simbolicamente, queste figure? Non si può dare una risposta certa: ne è passato di tempo da quando Ernst Reuter, il primo sindaco di Berlino Ovest dopo l’erezione del muro ha unito l’Europa occidentale contro il comunismo e da quando Margaret Thatcher ha portato i primi dogmi del Reaganesimo in UK. Ciò che possiamo aspettarci per il futuro è una maggior distribuzione di potere (simbolico), in particolare dopo le spinte di Spagna, Polonia e Danimarca per delle istituzioni europee più inclusive e più disposte ad ascoltare degli Stati tradizionalmente meno considerati.

 Che non sia possibile identificare una figura simile in UE? Improbabile. Ogni schieramento geopolitico ha bisogno di un proprio leader, che sia esso un’autocrazia, una Repubblica Popolare o una democrazia. È certamente più facile identificare una persona simile entro i confini di una sola nazione; è allora necessario, se si ritiene che serva un “Mr. Europa”, centralizzare maggiormente altri aspetti amministrativi finora delegati ai singoli Stati: il primo esempio che viene alla mente, vista la situazione, è un esercito comune. Fin quando le nazioni europee rimarranno così frammentate, così necessariamente costrette a fare da sole i propri interessi, l’Unione resterà soltanto un filo di spago che tiene uniti dei pezzi del puzzle che non combaciano. 

Daniele Erminio Petecca di Riforma e Progresso

IL TERZO POLO HA GIA’ FALLITO

IL TERZO POLO HA GIA’ FALLITO

Lettera aperta di un fu “possibile elettore” 

Ciò che segue sono le riflessioni di un ragazzo che per la prima volta avrà modo di esercitare il suo diritto di voto. Un ragazzo che, pur soffrendo di questa scelta, andrà al seggio solo per annullare la sua scheda

A luglio cade il governo Draghi, il quale pur non essendo stato un governo dalle decisioni incriticabili, è senza ombra di dubbio quello che ha goduto della maggior fiducia da parte del sottoscritto, il quale si definisce semplicemente a-ideologico e razionale. Le motivazioni di questo sentimento positivo nei confronti del governo passato non sono da ascrivere unicamente alla figura del Presidente del Consiglio, il quale certamente è garanzia di competenza e razionalità, ma anche per le decisioni prese nel pratico. Oltre a diverse nonostante alcune siano state discutibili (a mio avviso sono però riconducibili principalmente ad accordi con i partiti) nelle materie di cui egli ha deciso di occuparsi ha lavorato in modo del tutto alieno rispetto ai politici italiani. Niente promesse farlocche, niente propaganda spicciola e niente indebitamenti folli al di fuori dei fondi del PNRR. Potreste pensare: “ma per così poco?” ebbene sì, visto e considerato che i nostri partiti non arrivano neanche a questo livello minimo di decenza, né durante né dopo la campagna elettorale. Indubbiamente però Draghi non ha governato da solo ed è dovuto scendere a compromessi; il che da una parte lo hanno costretto ad accettare politiche bislacche come i bonus e dall’altra ha avuto le mani legate riguardo alcune questioni che nessun partito vuole vengano affrontate (e ne parlerò a breve). 

 

Inizia quindi l’estiva campagna elettorale, la quale tra la delicata situazione internazionale, i fondi del PNRR a rischio e la possibilità di un’ulteriore possibile ondata di Covid si prospettava come la più ridicola e rivoltante di sempre. Per ora è in linea con le mie aspettative se non un pochino peggio. Ivi però mi concentrerò sull’area politica che più ho seguito con interesse non essendo né fascista o putiniano né un pensionato nostalgico di Berlinguer. Mi riferisco quindi all’area del centro i cui partiti sono +Europa, Azione e Italia Viva. 

Breve ricostruzione: Azione e +E partono come federazione, l’intenzione è quindi quella di presentare una lista comune, mentre IV resta in disparte. La Federazione decide quindi di allearsi con il Partito Democratico con un accordo sui collegi uninominali molto vantaggioso. Questa scelta venne aspramente criticata dalla base dei partiti in quanto un’alleanza con il PD costituiva per proprietà transitiva un’intesa con Sinistra Italiana e Verdi i quali sono abissalmente distanti dal centro per quanto riguarda le politiche energetiche, ambientali, e internazionali. Il PD prosegue con il suo intento di costruire una sola grande coalizione che abbia come unico obiettivo non far vincere la destra e invita a parteciparvi anche gli ex pentastellati sotto la guida di Di Maio. Calenda quindi ribalta il tavolo e rompe sia l’Alleanza con il PD sia la federazione con +E. A quel punto Azione raggiunge (comprensibilmente) il massimo livello di sfiducia il che lo avvicina a IV; i due partiti decidono di correre insieme e nasce il “Terzo Polo”. 

 

Credo sia inutile sottolineare quanto questa dinamica sia imbarazzante per tutte le forze in gioco (eccezion fatta per Renzi che ha saggiamente deciso di rimanere in disparte fino all’ultimo evitando figuracce). Quella che ne esce peggio di tutti è però Azione che rimbalzando da una coalizione all’altra in questo modo comunica solo incapacità decisionale e di pianificazione strategica. La conseguenza non può che essere un mio forte tentennamento riguardo la decisione di votare, già traballante dopo l’alleanza con il PD. Che garanzia ho che in parlamento Calenda non si comporti come una scheggia impazzita similmente a questa circostanza? Decido però di attendere il famigerato programma del Terzo Polo, quello, che scevro da compromessi dovuti a un’alleanza con la sinistra, avrebbe dovuto essere il programma dei competenti, l’Agenda Draghi, magari non uno perfetto, ma qualcosa che mi avrebbe permesso di votare convintamente il “meno peggio”. Se sto scrivendo questa lettera aperta evidentemente così non è stato. Per quanto mi riguarda questo programma è la pietra tombale che sancisce definitivamente il fallimento del Terzo Polo a meno di un mese dalla nascita. Di seguito spiegati i motivi per cui la penso in questo modo. 

 

Un “meno peggio” a mio avviso si può definire tale se e solo se pur non rappresentando le mie idee a pieno quantomeno costituisce una vera alternativa agli altri, qualcosa che si distingua, che costituisca un punto di rottura. Tuttavia il programma del Terzo polo l’unica cosa che ha rotto è stata la mia pazienza. Il programma cerca unicamente di farli apparire come gli “alternativa alla destra e alla sinistra”. Per esempio sono più razionali della sinistra in tema di ambiente ed energia, ma scelgono l’ambiguità nei diritti civili tipica della destra. Se Calenda giustamente critica Letta di aver impostato la sua campagna elettorale, in modo imbarazzante e populista, presentandosi solo e unicamente come “L’alternativa alla destra” bisognerebbe far capire al leader di Azione che in realtà sta facendo la stessa identica cosa, ma con un fronte nemico in più: “non la destra e non la sinistra”. Il piano non è fare “politica nuova” è cannibalizzare Forza Italia, il quale sta prestato il fianco in quanto eccessivamente asservito agli altri partiti di destra lasciando scontenti molti moderati. Io mi rivolgo a chi come me si definisce razionale, ma è ancora persuaso a votare, veramente pensate che un “Forza Italia” pre Salvini sia un partito alternativo? Una speranza per il paese? Potreste pensare che sto esagerando, ma se il programma non vi ha reso evidente di questa decisione di posizionamento politico, controllate quanti Ex membri di FI sono ora candidati nel Terzo Polo e guardate a chi è rivolta la loro comunicazione. Sono spiacente, ma l’assenza di Berlusconi non mi fa pensare che un partito che condivide idee, politici ed elettori sia qualcosa di diverso da una versione moderna e sbiadita di Forza Italia. Partito, che ricordiamolo, fu uno dei maggiori responsabili del rischiato fallimento del Paese. 

 

“Ma cosa avresti voluto in più nello specifico?” per prima cosa un’esplicita presa di posizione progressista sui diritti civili (giusto per rimetterci in pari con il resto del mondo occidentale): eutanasia, matrimonio egalitario, legalizzazione della cannabis…  sarebbe stata una decisione importante, ma non strettamente fondamentale. Il punto del programma che denota la mancanza di volontà del Terzo Polo di essere qualcosa di diverso e che quindi ne implica il fallimento è l’approccio alle pensioni e alle coperture. In generale le coperture sono l’argomento più spinoso di un programma e tradizionalmente i politici italiani per affrontare questo delicatissimo e fondamentale tema decide di: 

 

  1. Mentire: dire che le coperture ci sono quando non è così o non avere davvero intenzione di applicare la proposta, ma usarla solo a fini propagandistici oppure promettere che il loro provvedimento avrà un impatto così positivo da auto-finanziarsi (che nel migliore dei casi è una roulette Russa e infatti questo metodo piace tanto alla Destra). 
  1. Proporre un metodo di ricavare le risorse che in un qualche modo fa appello alla narrativa ideologica di riferimento: non ha importanza che funzioni o meno e le possibili conseguenze collaterali. (questo piace tanto alla Sinistra). 
  1. Glissare completamente: evitare di accennare alla questione e sperare che nessuno se ne renda conto. Spesso si ricorre alla menzogna quando messi alle strette (metodo prediletto dal Terzo Polo). 

 

Il Terzo Polo oltre a non discostarsi dalla tradizione, e propone un programma con un buco di svariate decine di miliardi, per quanto riguarda il tema delle pensioni la faccenda acquisisce una sfumatura grottesca. Per chi ad oggi non lo sapesse; ogni singola analisi economica e di mercato dimostra che la pressione fiscale che serve per mantenere le pensioni in essere sta strangolando il nostro paese. Le tasse sono così alte che alzarle ulteriormente è un suicidio sia sul piano politico che economico, il che costringe a dover ricorrere a deficit e scostamenti di bilancio per le politiche sprovviste di coperture, così il debito pubblico si gonfia e quindi avremo meno risorse in futuro, quindi più deficit e così via. Tutto ciò senza considerare che il rapporto tra pensionati e lavoratori peggiora di anno in anno. Non vi è alcuna via di uscita dai problemi di questo paese se non fare i conti con la realtà. E affrontare la realtà significa tagliare la spesa pubblica, in primo luogo rimodulando le pensioni (ovviamente in modo progressivo) per abbassare le tasse e il debito pubblico. E la cosa grottesca è che il programma del Terzo Polo (i competenti) sembra voler evitare anche solo di nominare il termine “pensione” in modo del tutto simile al PD (mentre a destra si pensa solo a stratagemmi geniali per peggiorare ancora di più la situazione). 

Sicuramente riceverò svariate obiezioni simili a: “eh ma così vince la destra” o “eh ma gli altri sono peggio”, mi spiace, ma se ancora la pensate così forse non avete letto attentamente la lettera o forse siete ex elettori di Forza Italia. Ho però io delle domande per voi; 

 

Vi fidate di chi è incapace di programmare stabilmente un’alleanza? 

Vi fidate di chi cerca di replicare Forza Italia in tutto e per tutto (Berlusconi escluso)? 

Vi fidate di chi si propone come l’alternativa, ma non ha il coraggio di distinguersi

Vi fidate di chi sostiene di essere dalla parte dei giovani, ma poi gli promette solo bonus e non la riforma della spesa pubblica di cui i giovani sono i primi a necessitare? 

Vi fidate di chi dice di seguire l’Agenda Draghi, ma poi non propone quello che l’ex primo ministro avrebbe voluto fare se avesse avuto piena libertà decisionale, ma a malapena ciò che avrebbe fatto nonostante i mille paletti di un governo di larghe intese? 

La mia risposta a tutto ciò è No. E quindi ecco perché non lo voterò

Francesco Fusco di Riforma e Progresso

IL CONCETTO DI GIUSTO

È GIUSTO O NON LO E’?

Nel Critone di Platone, Socrate afferma “E’ meglio patire ingiustizia che commetterla”.
È con questa affermazione che Socrate il giorno seguente fu costretto a bere cicuta dopo esser stato
condannato a morte con l’accusa di corrompere i giovani e voler introdurre nella città nuovi Dei;
rimanendo però fedele alla sua etica eudemonistica, ovvero l’uomo può ottenere la felicità solo
agendo in rapporto al mondo in modo buono e giusto.
Ma il famoso filosofo aveva ragione? Molti sarebbero in disaccordo e sono coloro che pensano prima
al benessere del singolo individuo, al proprio tornaconto personale e preferirebbero commettere
un’ingiustizia a danno dal altri se quest’azione risulterebbe vantaggioso per sé stessi.
Dimenticandosi dell’esistenza di una società che poggia il suo equilibrio proprio sulla coesistenza
tra i singoli individui. Al contrario chi decide di condividere questa visione della convivenza, si può
mettere su uno scalino superiore verso la strada di una reale integrazione.
E per quale motivo le persone commettono ingiustizia? Forse coloro che la commettono non lo
fanno in modo razionale e consapevole, ma lo fanno pensando che sia il bene per sé stessi.

Questo perché? Perché l’uomo non sa quale sia il bene e quale sia invece il male proprio per la difficoltà di
riconoscerlo, azioni che possono risultare sbagliate possono essere giuste se messe in un contesto
differente; dunque, nel cercare di capirlo, spesso smarrisce la retta via commettendo dei peccati.
Non possiamo sapere con certezza quale sia il bene comune, in quanto difficile da individuare ma di
certo sappiamo bene qual è il nostro bene personale e, nel tentare di realizzarlo, accettiamo il fatto
di poter peccare a danno d’altri.
Cosa significa “Giusto”? Nel mondo greco-romano il concetto di giustizia ha il fondamento non
nell’uomo, ma nella realtà ideale, come principio materiale o come principio ideale. Da un concetto
di necessità che mantiene ogni cosa nel proprio ordine la giustizia passa a significare un principio
naturale di coordinazione e di armonia nei rapporti umani. Per il vocabolario odierno invece la
giustizia è una virtù eminentemente sociale che consiste nella volontà di riconoscere e rispettare i
diritti altrui attribuendo a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo la ragione e la legge. In entrambi
casi il fulcro della giustizia è la corretta coesione di tutti i popoli, il corretto riconoscimento della
diversità dei diritti e delle tradizioni altrui; inoltre, il dovere di rispettare le leggi, imparando,
attraverso uno studio critico della verità, a riconoscere quelle ingiuste da quelle giuste.
“Ciò che tu eviteresti di sopportare per te, cerca di non imporlo agli altri”

Lorenzo – Follower di Riforma e Progresso

LE PROMESSE DI IERI, OGGI E QUELLE CHE VERRANNO

LE PROMESSE DI IERI, OGGI E QUELLE CHE VERRANNO

Il condizionale è sempre d’obbligo quando si discute di politica ma su questo non ci piove: i programmi elettorali esprimono le idee dei partiti e le loro proposte. È una frase tanto semplice quanto incomprensibile al popolo italiano che è sempre più convinto bastino solo le prime (le idee) visto che la scarsa educazione finanziaria, civica e storica estesa in tutta la penisola rende le seconde (le proposte politiche) incomprensibili ai più. Per decenni in Italia abbiamo votato le idee senza curarci dell’impatto che le riforme avrebbero avuto sulle finanze dello stato.
L’italiano medio crede ancora oggi nella favola dei poteri forti e dei burocrati di Bruxelles che avrebbero desiderato il nostro fallimento nel 2011 e non ha compreso che forse erano le finanze dello stato a non essere più credibile e sostenibili. Le mance elettorali ed i bonus hanno contraddistinto la seconda repubblica portando la grande Italia ad essere seconda in Europa per rapporto debito/Pil.
Non illustrerò la crisi finanziaria del nostro paese; mi limito a spiegare che il 44,3% circa del debito pubblico (fonte ISTAT) è posseduto da soggetti esteri indi per cui bisogna risultare credibili ripagandolo. La mancanza di fiducia nell’Italia potrebbe costarci cara poiché i compratori dei titoli di stato richiederebbero maggiori tassi d’interesse o peggio ancora si rifiuterebbero di sottoscriverne altro.

Mi perdoneranno gli economisti per questa brutale sintesi (che esclude decine di altri fattori) ma è necessario trasmettere ai cittadini che siamo arrivati ad un punto critico in cui emettere altro debito renderebbe l’Italia sempre meno credibile e addosserebbe sulla prossima generazione gli oneri di oggi. Se un giorno il nostro paese si dichiarasse inadempiente dovremmo inginocchiarci e subire le conseguenze di essere una seconda Grecia.
Ora che abbiamo compreso la vitale importanza della sostenibilità del debito è giusto chiedersi se per queste elezioni i politici avranno adeguato le loro proposte. I partiti (al di là delle idee che in questo paper non saranno messe in discussione) propongono riforme sostenibili? Spiegano come e con che risorse intendono soddisfare le promesse mantenute? Spoiler: NO. Nessuno escluso. Ma vediamo insieme uno ad uno i programmi depositati al ministero degli interni dalle maggiori forze politiche ponendo però attenzione alla parte di spese che coprono e sulle spese che invece andrebbero ad incrementare il nostro caro amato debito pubblico.
Partirei con il primo partito nei sondaggi: Fratelli d’Italia. Il programma non è altro che una lista di voci di spesa che vanno dall’abolizione dell’IRAP (costo di 26 mld, fonte: MEF) ad agevolazioni sull’acquisto di una casa (spesa inquantificabile) alla flat tax (costo di 58 mld. Fonte: lavoce.info). Non mancano le promesse tanto generali quanto mal formate per i giovani. Il totale della spesa calcolabile secondo Costantino De Blasi (di Liberi e Oltre) si aggira sui 160-200 mld (circa il 10% del PIL). È una cifra spropositata ma giustificabile se ci fossero delle coperture. Purtroppo il fabbisogno dichiarato dal programma oltre al ricalcolo delle pensioni d’oro è inesistente.

Chi ben incominci è a metà dell’opera no? Proseguiamo con l’arcirivale Enrico Letta, leader del secondo partito italiano. Il Partito Democratico nel suo documento fa emergere una certa attenzione per le coperture, purtroppo però fa finta di non sapere che sono del tutto insufficienti per coprire il fabbisogno finanziario delle proposte scritte. Con le sue promesse vaghe e la reticenza che contraddistingue il programma il costo stimato per la sua attuazione è di 110 mld (Fonte: Liberi e Oltre). Le uniche coperture quantificabili indicate derivano dalle gare per il 5G. Utile sottolineare la proposta della riduzione dell’IRPEF del 50% per le start up. Peccato che queste non siano soggette all’imposizione IRPEF in quanto non si tratta di persone fisiche (Perciò questa spesa non è stata inclusa nel conteggio).
Cosa potrebbe mai andare peggio? La risposta è semplice: il programma del Movimento 5 Stelle. 13 pagine di elenco puntato in cui non si presenta nemmeno una voce di entrata per lo Stato. L’unica copertura segnalata è rappresentata da una non spesa, in quanto promettono di tagliare un costo futuro programmato seguendo le direttive NATO: quello per il riarmo (2,6 mld). Il totale delle spese per realizzare le promesse ammonta a 106 mld.
Due settimane prima delle elezioni il Movimento pubblica una versione estesa del programma che oltre ad inserire qualche dettaglio in più sulle proposte dice questo: (parafraso) “l’Italia ha sempre rispettato le direttive europee e per colpa del debito pregresso e delle banche che si arricchiscono oggi ci troviamo ad affrontare un debito maggiore”.
Oltre al fatto che sia falso, se queste sono le cause del rapporto debito/PIL al 152.5% allora forse vi è mancanza di cultura civica, storica e finanziaria anche nella nostra classe dirigente.

Per tornare dove “si è stati bene” è giunto il momento del programma dell’immortale Silvio Berlusconi e la sua Forza Italia. Programma storico uguale in buona parte a quello del 2018. Le coperture non sono significative (spesso sono in contraddizione con il programma stesso) e non sono quantificate con nessun numero. In compenso il totale della spesa necessaria a soddisfarlo eguaglia i 108 mld (Liberi e Oltre).
Chiudendo la coalizione del cdx andiamo sul partito che merita il premio finanziamenti 2022: la Lega Salvini Premier. A sorpresa i costi del suo programma sono solo 178 mld (comprendendo i costi pluriennali derivati dalla proposta sulle infrastrutture). Inoltre risulta molto articolato nelle proposte bandiera (flat tax, decreti sicurezza ecc..) quanto altrettanto vago in tutte le altre. Ma arriviamo al punto forte: la parola “coperture” compare due volte per un risultato finale di 0 mld di introiti per lo stato, in quanto la prima volta si riferisce alle coperture agricole e la seconda alle coperture vaccinali. Sicuramente sotto l’aspetto finanziario il peggior programma della coalizione.

Dove i primi tre poli falliscono ci riuscirà il quarto? Il polo Calenda propone un programma economicamente migliore ma non per questo sufficiente. Migliore perché presenta dati e articola nel dettaglio alcune proposte molto tecniche (es: piano energetico). Insufficiente perché di fronte ad un costo di realizzazione di 52 mld le coperture certe sono 11 mld. Le coperture semi-certe (quelle derivate dal miglioramento strutturale della lotta all’evasione) potranno essere 10 mld nel 2024. Il programma è competente e tecnico ma il saldo finale rimane negativo.
Senza entrare nel dettaglio citerò solo il programma dell’Alleanza Verdi/Sinistra italiana e quello di Unione Popolare. Il primo oltre a non contenere una singola voce di entrate pubbliche presenta caratteri anti-scientifici e spese inquantificabili. Il secondo presenta un saldo negativo di 173 mld (Liberi e Oltre). Avete letto bene: SALDO.

È stata lunga ma abbiamo terminato. Le conclusioni finali sono tristi ma lapalissiane: con questi partiti e questo sistema di fare politica si può dare al cittadino, all’impresa e al giovane il contentino ma solo a discapito del bene del Paese intero. A danni del nostro futuro.
Penso che dopo questa lettura non direte più: ”I politici vanno al governo e poi sono tutti uguali, nessuno fa quello che promette” ;
ma forse a malincuore penserete: “Per fortuna anche questa volta non hanno mantenuto le cazzate promesse”.

Riccardo Negrisoli – Riforma e Progresso

L’ITALIA E’ MORTA

L’ITALIA E’ MORTA

Questi anni avrebbero potuto confermare o ribaltare il risultato. Come disse Aristotele qualche anno fa “ogni popolo ha i governanti che si merita” e Joseph de Maistre aggiunse “e anche l’opposizione”.
Purtroppo l’Italia si è confermata un paese socialmente morto; quando muore la memoria di un paese, muore la politica.
La memoria politica italiana dura quanto un suo governo. Ci ricordiamo quello che è successo ieri e poi dimentichiamo senza cogliere le ipocrisie e le contraddizioni degli attori in gioco.
Ignoriamo la complessità, viaggiamo per luoghi comuni. Ci piace il populismo perché parla alla pancia, ”in generale si fa solo alle donne in gravidanza” (#Mery per sempre, Ernia). 

Studiando il fenomeno politico odierno osserviamo che questa volontà di comprendere il complesso con slogan ha portato il dibattito pubblico su livelli effimeri. Ascoltando gli interventi in parlamento possiamo cogliere la necessità di ogni parte sociale di puntare il dito. Di trovare il capro espiatorio per ogni fallimento politico. Questo perchè è più facile. In Italia ci è sempre piaciuto giocare al chicken game: quel gioco in cui si promette, si fanno bonus a debito, si fa felice una fetta di elettorato per poi trovarsi all’angolo e dare la colpa al governo tecnico di turno che con delle magie avrebbe dovuto sistemare le finanze dello stato in un battibaleno. 

Oggi la vittima è il nostro Mario Draghi mentre Ieri erano Ciampi, Dini e Monti e domani sarà Pinco Pallino. Non importa chi, importa sapere come arriveremo a votare una classe politica che ci spingerà ancora di più sulla soglia del baratro convincendoci con le classiche promesse elettorali. Una classe politica che ha il solo scopo di vedersi il consenso aumentare. Perché se si facesse politica per il bene del paese non sarebbe rilevante una rielezione. Sarebbe rilevante circondarsi di tecnici ed esperti di ogni settore per legiferare su temi strutturalmente essenziali e con vedute di lungo periodo, lasciando per un attimo da parte l’ideologia e la riforma portabandiera del partito. Sarebbe importante creare un beneficio sociale all’intero paese e non solo alla propria categoria di elettori. Per questo l’Italia è socialmente morta.

Ci dimentichiamo inoltre che l’Italia è storicamente debole: a livello sociale siamo indietro rispetto alle più moderne democrazie, a livello economico siamo un debito per l’Europa. Eppure dentro di noi abbiamo quella punta di orgoglio nazionale che ci spinge a credere che l’Italia debba ritrovare la grandezza che naturalmente le spetta in Europa e nel mondo. Quello sfarzo e quella forza dell’impero romano da cui discendiamo. Ricorda un po’ il fascismo vero? Ricorda quel discorso di Putin prima dell’invasione. Quest’idea malata che l’Italia è stata importante e quindi dovrà essere sostenuta dall’Europa perchè le spetta di diritto. In realtà siamo morti, incapaci di ascoltare e capaci di urlare slogan. Solo slogan.
L’Italia oggi a livello economico è per l’UE too big to fail. Se andassimo in default tecnico sarebbe a rischio l’intera moneta. L’UE lo sa e i politici italiani pure. Per questo andremo avanti a rischiare, a rispettare (forse) promesse elettorali finanziate con altro debito. E noi dovremo alzare la mano e urlare “mea culpa”. Allora per una volta guardiamoci allo specchio e facciamo i politici di noi stessi. Amministriamo i nostri pensieri ed esponiamoci sulle materie che ci competono poiché non siamo tutti tuttologi come Orsini; Non siamo portatori di verità. Nessuno lo è.

Perché se ognuno esprimesse la massima potenza in un suo piccolo ambito allora la collettività potrà beneficiarne. Se tutti insieme ci diamo una mano forse in futuro avremo voce e competenze per cambiare questo paese. Ma prima bisogna cambiare mentalità ed essere disposti al sacrificio; per quest’anno è impossibile ma per chi ci crede nel 2027 ci sono gruppi di ragazzi pronti a farsi sentire come #riformaeprogresso.

Piccole cose possono fare la differenza. Io credo che l’Italia possa rialzarsi perché leggo nei giovani la voglia di farsi sentire. Facciamolo tutti insieme #riformaeprogresso

Riccardo Negrisoli – Riforma e Progresso

QUANDO DRAGHI NON C’E’ I CONSERVATORI BALLANO

QUANDO DRAGHI NON C’E’ I CONSERVATORI BALLANO

Ma è la sinistra ad accendere lo stereo

E’ ufficiale, è crisi di governo. 

Leggendo i siti delle principali testate giornalistiche e dei più noti opinionisti mi accorgo che un dubbio regna sovrano: “com’è possibile che gli esponenti dei più grandi partiti abbiano fatto una mossa del genere in un momento così difficile per l’Italia?”. Mi vengono in mente molti aggettivi per descrivere il mio stato d’animo in relazione a questa situazione: amareggiato, sconfortato, disilluso, arrabbiato. Ma certamente non sorpreso.

Penso che sia proprio questo a far capire la drammaticità della situazione: ci siamo abituati.

Ci siamo abituati ad una classe politica che cura i propri interessi e non quelli dei cittadini, che non ha una visione sul futuro del paese ma ha ben chiaro come porterà le proprie tasche a gonfiarsi e la propria sfera di influenza ad espandersi fallendo, se possibile, anche in questo.

Ci siamo abituati ad innamorarci ci chi prometteva giustizia sociale e poi si è limitato a introdurre un reddito disfunzionale, a prendere come punto di riferimento chi prometteva sicurezza e meno tasse cercando il successo sulla pelle dei più deboli e mandando il Paese in crisi da una spiaggia in riviera; ed ora, stando ai sondaggi, siamo pronti a consegnarci a chi il Ventennio non l’ha mai superato e che fa l’occhiolino a chi ancora lo ricorda con nostalgia.

Prima di mostrare come tutti gli attori coinvolti (o quasi) siano degni di rimprovero analizziamo la crisi in corso:

  • Tutto ha inizio il 14 luglio con la mancata fiducia da parte del M5S al Dl Aiuti proposto dal governo. Questo fa sì che Draghi individui una crepa nella maggioranza che lo sostiene e rassegna quindi le proprie dimissioni. Dimissioni che vengono respinte dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con l’incoraggiamento a trovare una nuova fiducia in parlamento, il tutto viene fissato per il 20 dello stesso mese.
  • Durante la mattinata del 20 luglio, a partire dalle 10 circa, Draghi chiede ai partiti in Senato di manifestare o meno la volontà di ricostruire il patto di governo. La Lega a questo punto si sente in diritto di avanzare richieste per ricostruire il governo e chiede l’estromissione dei pentastellati mantenendo Draghi come Presidente del Consiglio.
  • Nel pomeriggio, dopo un vertice del centro-destra nella villa romana di Berlusconi, Calderoli avanza la richiesta formale di proseguire il governo senza i 5S, mentre dal centro Casini propone di proseguire il governo Draghi senza esclusioni di sorta e rinnovando la fiducia.

Draghi pone ai voti la “risoluzione Casini” che lascerebbe tutto invariato, ignorando le proposte di destra e 5S, e ottiene nuovamente la fiducia ma, con soli 95 voti a favore, perde la maggioranza (5S, Lega e Forza Italia si astengono).

  • La mattina del 21 Draghi annuncia alla Camera che rassegnerà le proprie dimissioni. E’ la fine del governo di larghe intese.

 

Analizzando la questione ci si rende conto di come le dinamiche di questa crisi siano più simili ad un campo estivo per bambini che ad un governo occidentale.

Conte ha creato i presupposti per una crisi dalla quale è uscito sconfitto (se del tutto o parzialmente sarà il tempo a dirlo) o comunque estremamente indebolito.

Salvini, pur di non perdere “l’amicizia” con i colleghi di destra ha buttato l’ultima opportunità di restare sul cavallo vincente sancendo una volta per tutte la propria subordinazione alla Meloni e forse anche la sua fine come leader della Lega.

Letta non ha particolari responsabilità nella crisi stessa ma il PD non si prospetta all’altezza per contrastare l’avanzata meloniana verso le prossime elezioni mantenendo una linea centrista che impedisce di raggiungere i voti della sinistra più convinta.

Meloni è l’unica vera vincitrice di questa crisi, la quale potrà concretizzare il proprio consenso (mai così alto) alle elezioni che a questo punto verranno anticipate al 25 settembre. Preparandosi a portare avanti uno dei programmi più anacronistici e inadeguati della scena politica italiana.

Questa crisi ci propone un’immagine chiara e allarmante di una classe politica che in un periodo davvero tragico, caratterizzato da inflazione, crisi economica e sanitaria e un inizio di recessione che prospetta scenari degni della Grecia di qualche anno fa, sacrifica le speranze di un popolo in nome dei propri giochi di potere.

Ad uscirne martoriate sono anche le proposte per i diritti civili che a fatica si sono fatte strada in questa legislatura come la coltivazione della cannabis, l’eutanasia e il riformulato ddl Zan che dovranno aspettare il nuovo governo per essere portate avanti e che, in caso di vittoria della destra, finiranno probabilmente nel dimenticatoio di Stato assieme alla transizione ecologica.

Come già detto nell’introduzione, ci siamo abituati a vedere la classe politica come un “team elitario” che mette i propri interessi avanti a tutto. Questa è però una concezione del tutto alienante di coloro che dovrebbero amministrare ciò che appartiene ai cittadini: la res publica.

Si può tranquillamente dire che quasi tutti i partiti abbiano tradito la fiducia dei propri elettori non avendo paura di dimostrarlo con costanza e dedizione.

Questo gioco politico manifesta l’oggettivazione del pericolo che l’Italia corre: non solo la classe politica non si fa scrupoli a creare grosse difficoltà al Paese senza alcun bisogno ma si dimostra inadeguata alle sfide di oggi come la crisi economica e la gestione della pandemia. Viene dunque difficile pensare che sarà in grado di affrontare le sfide del futuro prossimo di cui iniziamo ad avere i primi assaggi come la crisi climatica o la crisi idrica o le migrazioni di massa dal sud del mondo che ne conseguiranno.

Non si merita, forse, il popolo italiano di avere un’alternativa seria e competente? O almeno un’ambiente politico nel quale destra e sinistra dialoghino per fare il bene del paese e portare avanti i temi fondamentali attraverso riforme e inseguendo il progresso?

 

Massimiliano Tommasi – Riforma e Progresso

MANCANO LE DONNE IN POLITICA

Avete presente quello strano click che hai iniziato a sentire quando premevi la frizione, o il fastidio al dente che non passava più, o lo scarico della doccia sempre più lento. Capita di doversi rimboccare le maniche per sistemare un guasto, e mano a mano che provi ad aggiustarlo, addentrandoti nel meccanismo inceppato, ti accorgi che il problema è un altro più a monte e più grave, allora ti munisci di nuovi strumenti, controlli di nuovo, ma ecco che il problema è ancora più a monte e ancora più grave. 

Frustrato inizi a chiederti come hai fatto a non accorgertene prima? Ti saresti risparmiando un sacco di problemi! Sarebbe stato più facile! Invece no! Hai procrastinato, hai fatto finta di nulla e guarda un po’ cosa devi fare adesso!

Il progetto Riforma e Progresso è ancora agli inizi, sappiamo che l’unione fa la forza, così fin da subito cerchiamo di attirare il maggior numero possibile di interessati. A tal riguardo il fondatore, Giacomo, ha fatto notare un problema “che strano, siamo quasi tutti maschi”. Già, è strano, eppure gli inviti sono dispensati senza alcuna differenza, anche le nostre proposte sono per la parità di genere.

Si tratterà di una casualità statistica? come quando lanci tre volte la moneta ed esce per tre volte testa. 

Sembra di no, chiedendo in giro pare che molte altre associazioni che trattano di politica abbiano questo stesso problema.

Poi il colpo di grazia, durante una video-chiamata di gruppo il nostro ospite, un rappresentante dell’associazione Base Italia ci lancia una frecciatina <<di certo una cosa che vi distingue dagli altri partiti è che siete tutti maschi>> era un’innocente battuta ma ci ha punto sull’orgoglio. Non è questo ciò che siamo, tanto meno quello che vogliamo sembrare dall’esterno. 

Nel gruppo Telegram abbiamo a lungo discusso di questa inspiegabile maggioranza di cromosomi XY, senza però cavare un ragno dal buco. Si puntava il dito contro gli effetti diretti e indiretti del “Patriarcato”… ma quindi? Siamo una start-up politica, non un gruppo di sociologi! Abbiamo bisogno di una soluzione, non di un colpevole astratto.

La mancanza di donne all’interno di un gruppo che fa politica in un paese democratico è un problema serio. C’è chi dice che le donne vedano le cose da un altro punto di vista, che il mondo sarebbe più pacifico se ci fossero più donne, che sono più brave a prendersi cura di questo o quello. Non saprei, sarà che io sono un uomo, ma la vedo da un punto di vista molto più pratico: le donne sono metà della popolazione, sono soggette a svantaggi che non posso capire, mi sento stupido quando in un gruppo Telegram di soli uomini faccio supposizioni su perché non ci sono donne all’interno o su ciò che apprezzerebbero.

Così ho fatto due piccoli sondaggi con la mia pagina Instagram, non sarò l’ISTAT ma credo apprezzerete pure voi i risultati.

– Nella  prima storia ho introdotto il problema parlando della mia esperienza personale: 

“Sono stato in molte associazioni e ho notato che nei Grest estivi ci sono più ragazze che fanno le animatrici. Nei circoli culturali maschi e femmine si equivalgono. Invece nei circoli politici sono di più i maschi. La scarsa presenza femminile a questi ultimi mi pare strana, anche perché le ragazze sono una maggioranza nei corsi di scienze politiche”.

– Nella seconda ho lasciato una domanda aperta:

“Per risolvere questo arcano permettetemi di chiedere a voi donne una cosa. Immagino che nel vostro paese ci siano sicuramente circoli dei maggiori partiti al governo: Lega, PD, 5S, ecc.” “Perchè preferisci non farne parte? Cosa dovrebbero fare per invogliarti?”

– Nella terza ho posto un sondaggio, per capire se ciò che ho affermato nella prima storia trovava conferma tra i follower della mia pagina Instagram:

“Mi è capitato di partecipare a:

  1. Progetti/associazioni politiche
  2. Solo progetti/associazioni non politiche
  3. Sia politiche che non
  4. Nessuna associazione o progetto”

Alla domanda aperta hanno risposto solo 2 donne chiedendo politiche meno sessiste. Al sondaggio invece hanno risposto in 21 persone, ben equilibrate tra maschi e femmine. Zero voti alla prima domanda, non mi stupisce, in genere chi entra in un circolo politico è perché ha precedentemente maturato un certo spirito collaborativo in altre realtà. “Nessuna associazione o progetto” 5 voti: 1 femmina e 4 maschi, è la domanda con meno risposte, ne deduco che chi si prende la briga di rispondere ai sondaggi virtuali in genere sia attivo pure nella realtà. “Solo progetti/associazioni non politiche” hanno risposto in 9: 7 femmine, 1 maschio e 1 dal cui profilo semi vuoto non si può intendere il genere. Invece assistiamo allo scenario specularmente opposto per “Sia politiche che non”, 7 voti:  5 maschi, 1 femmina  e 1 dal cui profilo semi vuoto non si può intendere il genere.

Ossia, la scarsa partecipazione femminile nel gruppo Riforma e Progresso è il click della frizione, il click di un problema molto più serio, vasto, concreto e a lungo ignorato. Ma i mezzi digitali non possono dirmi più di ciò che già sapevo.

Faccio delle veloci interviste alle ragazze/donne che conosco, ripetendo le stesse domande che ho posto nel social e credo di averci capito qualcosa.

Scartiamo la storia del patriarcato dunque, buona per i talk show ma troppo generica e impalpabile, nessuno ha mai chiesto alle donne che ho intervistato di star lontana dalla politica, sono loro che hanno scelto di non andarci. Ok. Allora perché scelgono di non andarci? A questa domanda le risposte variano da: non ci ho pensato, nessuno mi ha mai invitato, troppo impegnativo. Ma non è nelle parole che stava la risposta, più nel tono di voce direi, un po’ sbrigativo, leggermente sorpreso, senza il minimo senso di colpa. Dalle loro risposte trapelava un “è normale che non ci partecipi”. Ecco!

Per l’ennesima volta, la risposta alla non partecipazione politica, ritengo sia la Sfiducia. Solo che nelle donne è maggiore che negli uomini, una sfiducia così opprimente e selettiva che rinunciano sistematicamente a mettersi in gioco. Lo capisco perfettamente, la politica pare incapace di generare soluzioni a misura di donna, e nessuno sano di mente si dedica ad un progetto sapendo che è qualcosa di impossibile. In questa mia interpretazione si sono riconosciute pure loro.

Dunque, se le cose stanno davvero così, ai maschietti che partecipano a progetti o associazioni politiche e vorrebbero includere più donne, consiglierei di metter da parte il sentirsi stupidi a progettare soluzioni a favore delle donne anche se non ci sono donne. Alle femminucce consiglierei di mettere da parte il tanto non cambierà nulla e iniziare a fare politica attiva (chissà, potrebbe anche piacervi). O almeno, non vedo in che modo in un sistema democratico, l’interesse di coloro che vi partecipano possa sostenere i bisogni di chi sceglie di starne fuori.

Federico – Riforma e Progresso

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